27 giugno 1980. Un DC9 della compagnia Itavia scompare dagli schermi dei radar di controllo senza aver segnalato alcun problema e si inabissa nel Mediterraneo tra le isole di Ponza e di Ustica. Le vittime sono 81. Tra di esse c’è la piccola figlia della giornalista Roberta Bellodi. Un deputato, Corrado di Acquaformosa, nominato nella commissione parlamentare di inchiesta sull’accaduto decide di non accettare tesi precostituite sull’incidente. Al suo fianco si schiera la moglie Valja ma entrambi non avranno vita facile.
Renzo Martinelli accantona (c’è da sperare in modo definitivo) i film pamphlet ideologicamente orientati contro i musulmani o a favore della mitica Padania e torna al cinema che gli riesce meglio. Torna cioè ad occuparsi delle zone oscure della storia patria come aveva fatto con rigore in Porzus e in Vajont e con qualche macchinosità in più in Piazza delle cinque lune. La sceneggiatura è frutto di un impegno di ricerca durato 3 anni supportato da due ingegneri aeronautici che hanno vagliato migliaia di documenti relativi a perizie e testimonianze. Ciò ha portato a un film in cui la finzione si ancora ostinatamente a documenti inconfutabili.
Proprio per questo il regista, che da sempre ha avuto la costanza e la capacità professionale per trovare finanziamenti ai suoi progetti, ha dovuto faticare non poco per mettere insieme la produzione. Perché questo è davvero un film ‘scomodo’ ma finalmente non perché forza il pedale sull’acceleratore della tesi ‘contro’ caricando di conseguenza i caratteri, ma perché si inserisce con dignità nel filone del cinema di denuncia che in Italia ha fatto scuola in decenni ormai lontani e che sembrava essersi in qualche misura estinto. Anche qui tra i protagonisti c’è una giornalista ma la chiave di lettura non ha nulla a che vedere con Il muro di gomma di Marco Risi. In questo caso Martinelli, com’è nel suo carattere di regista, si è prefisso l’obiettivo di creare una breccia profonda in quel muro, forte anche di ulteriori due decenni abbondanti di distanza dagli avvenimenti rispetto al film del 1991. La tesi, che non va anticipata, rimuove le ipotesi finora avanzate e lo fa grazie a una linearità narrativa che ha lo scopo di far sì che anche il meno avvertito degli spettatori comprenda quanto l’operazione di manipolazione della pubblica opinione sia stata pervicace e priva di scrupoli. Qualcuno penserà che questo sia un difetto che inficia il rigore dell’inchiesta con gli stilemi della fiction italiana da prima serata televisiva. Il rischio c’è ma in questo caso si trasforma in un pregio: le denunce riservate al ristretto circolo dei già convinti lasciano il tempo che trovano. Quelle che si rivolgono al pubblico più ampio possibile di fatto affermano la volontà di mettere in comune il sapere adempiendo quindi con pienezza al loro compito che è quello della ricerca di una verità non di comodo.