Tilly è tornata. Da Dungatar, paesino desertico di qualche centinaio di anime in cui è nata e cresciuta, era stata cacciata decenni prima, per un incidente che l’ha traumatizzata al punto da averlo rimosso e ora ci torna come affermata stilista. Siamo nel 1951 e Tilly porta con sè una ventata di modernità, di abiti su misura alla moda che mettono in risalto le forme di donne che parevano aver dimenticato tutto, chiuse nel bigottismo locale. Non si tratta però di un ritorno pacifico. Fare vestiti per gli abitanti di Dungatar è solo un modo per iniziare a scoprire cosa ci sia nel suo passato, cosa abbia fatto impazzire sua madre, perché ancora venga insultata e in ultima analisi, vendicarsi.
Sostituire alle pallottole i vestiti, usare cioè le armi dell’esaltazione del corpo tramite la stoffa per vendicarsi, è la maniera in cui Jocelyn Moorhouse adatta la storia del romanzo omonimo di Rosaline Ham. Nell’outback australiano la regista cerca e trova le badlands del west, quel misto di desolazione ed isolazione che rende necessaria una presa di posizione etica. Dalla sua casa che domina una comunità stretta attorno al farmacista, al sindaco e all’insegnante elementare, Tilly è il baricentro morale del film e promette quello che il paesino non aveva mai conosciuto e invece lei ha imparato oltreoceano: la liberazione del corpo dal giogo dell’ottusità mentale.
Come in un film di Nagisa Oshima il vero potenziale di The dressmaker sta nella forza distruttiva che la legge dell’attrazione fisica esercita sugli uomini. Nonostante la dirittura morale della protagonista, alla fine ciò che incrina Dungatar sono i centimetri di pelle lasciata esposta dai suoi vestiti, i fianchi scolpiti e i look ammiccanti che crea, sono quelli a cambiare l’ordine sociale e portare i ricchi a sposare i poveri. Ma è solo un dettaglio purtroppo.
Il vero tema del film è quello del ritorno ed è illustrato perfettamente dalla prima scena che, ottemperando all’estetica western, vede un treno arrivare nella notte con un passeggero inquadrato solo per dettagli (tra cui la Singer, come fosse un Remington o un Winchester). Invece il segreto che macera nel passato della protagonista è il MacGuffin che spinge Tilly a prendere di petto la coscienza locale. The dressmaker quindi promette scintille fin da questo doppio movimento, cioè dalla maniera in cui Kate Winslet (in forma e combattiva come sempre, forse una della attici più costanti del cinema contemporaneo) combatte la piccolezza tramite la seduzione delle menti e dal modo in cui sembra che l’egoismo di provincia vinca comunque. Affascinata da Tilly e dal suo potere liberatorio ma ferma nella sua condanna bigotta, la comunità incarna la parte migliore del film.