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UNA POP SONG COLORATA E LIBERATORIA, CHE RACCONTA LA PUBERTÀ CON UNA METAFORA PORTENTOSA.
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Meilin Lee ha tredici anni, ama la matematica, è educata, entusiasta, e ubbidiente. La sua famiglia è di origini cinesi e ogni giorno, dopo la scuola, Meilin aiuta la madre Ming ad organizzare le visite dei turisti all’antico tempio di famiglia. Adora fare le pulizie. Ha anche un gruppo di amiche a cui vuole molto bene, e come loro è fan sfegatata di una boy band che non rientra esattamente nei gusti musicali dei suoi genitori, ma per fortuna ci sono le cuffie. Le cose si complicano, però, quando un mattino Meilin si sveglia e si ritrova trasformata in un enorme, distruttivo, incontrollabile panda rosso. Colpa di una vecchia maledizione di famiglia, di cui sua madre non le aveva mai parlato, nonostante lei stessa, da ragazzina, avesse sperimentato qualcosa di molto simile.

Non è più tempo di Zero in Condotta. Come già nel Piccolo Principe di Mark Osborne, la giovane protagonista è una studentessa zelante e una figlia modello. Ma l’adolescenza arriva per tutte e fa saltare l’immagine che la precede. Improvvisamente ci si riempie di peli, si emana odore acido, si guardano i ragazzi con altri occhi, e il bisogno di accettazione, un tempo soddisfatto dai genitori, si rivolge ora agli amici, più importanti che mai.

Ci voleva la genialità di Domee Shi, già autrice del provocatorio corto Bao, per sintetizzare tutto questo in un’immagine di rara forza e puro divertimento: il panda rosso.

Simbolo di quella metamorfosi bestiale che è la pubertà, che ritocca la forma e la psiche, la metafora al centro di Red racconta brillantemente l’ingombro e l’inadeguatezza (ma anche la tenerezza e il calore) di quell’età ibrida, attraverso la dominante cromatica del sangue, dell’imbarazzo, degli scatti imprevisti di rabbia e della passione amorosa.

Mentre normalizza con umorismo e intelligenza qualcosa che il cinema fingeva di non vedere (o affidava al genere horror), Red racconta una tra le più complicate relazioni umane, quella tra madre e figlia, guardando,nello stile all’animazione giapponese di fine millennio scorso e alla sua capacità di tradurre le emozioni in esagerazioni grafiche, e nello spirito a quello di un’altra Ribelle della Pixar, di cui riprende non solo il tema della trasformazione magica ma anche quello, più specifico, dello strappo, nella variazione della cicatrice.

Attraverso i personaggi di un universo personale, Domee Shi affresca una dinamica matrilineare universale con uno stile volutamente pop, che lungi dal far semplicemente sfoggio di sé, incarna quell’integrazione del nuovo col vecchio che è la chiave per il superamento delle difficoltà nella turbolenta fase della vita che il film prende in oggetto. La morale è liberatoria quanto l’esplosione iniziale: le tare ereditarie non sono per sempre; ognuna, se vuole, può essere la differenza.

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