Francesca Mannocchi giunge a Bucha due giorni dopo la liberazione dalle truppe russe che l’avevano occupata per 33 giorni. Documenta, senza risparmiare nulla alla vista, l’eccidio compiuto ai danni della cittadinanza. Avvicina le persone conquistandone la fiducia perché le lascia parlare di ciò che hanno vissuto e che ancora stanno vivendo senza interrompere i loro racconti.
Ne esce un film carico di dolente compassione nei confronti di un’umanità provata ma non sottomessa.
Mannocchi è, senza ombra di dubbio, una delle corrispondenti di guerra più esperte e preparate. A differenza di alcuni reporter descritti da Michael Winterbottom in Benvenuti a Sarajevo che avevano maturato un fondo di cinismo, forse a protezione della propria sanità mentale, entra in empatia con la popolazione pur conservando lucidità di sguardo e di lettura delle situazioni.
Il film inizia con un ragazzino che si aggira in una voragine prodotta da una bomba e la memoria cinefila va a un film di un russo che avrebbe saputo provare vera compassione nei confronti di Bucha invece che causarne il dolore. Il riferimento è ad Andrej Tarkovskij e alla sua opera prima L’infanzia di Ivan. Quella era un’altra guerra, la seconda mondiale, e una donna anziana che l’ha vissuta descrive ora cosa significhi per lei tornare a provare quelle stesse sensazioni. Allora erano i tedeschi ora sono i ‘liberatori’ russi che in quei 33 giorni lì hanno massacrato 458 civili impedendone in alcuni casi la sepoltura, realizzandola in fosse comuni in altri.