Il ritrovamento di una piccola statuetta e di altri reperti in un sito archeologico nel nord dell’Iraq preoccupa molto l’esperto padre Lankester Merrin. A Georgetown, negli Stati Uniti, l’attrice Chris MacNeil, divorziata e impegnata in un set cinematografico, si trova alle prese con lo strano comportamento della figlia adolescente Regan, la quale, dopo aver giocato con una ouija board trovata in casa, manifesta chiari segni di instabilità. Dapprima si pensa a qualche tipico problema psicologico adolescenziale, ma ben presto Chris capisce che la scienza non può nulla: sua figlia è alle prese con qualcosa di soprannaturale. Così cerca aiuto presso padre Karras, un sacerdote che però è tormentato dal dubbio di aver perso la fede. Quello che ci vuole è un vero esorcista perché la lotta che si prospetta è dura, contro il demonio che ha preso possesso della ragazzina. E allora torna in gioco padre Merrin.
Pochi film hanno influenzato la cinematografia successiva più de L’esorcista. Pochi film sono stati altrettanto imitati. Molte le novità introdotte o consolidate e molti i parametri creati, con cui tutti gli altri hanno poi dovuto confrontarsi.
La scelta vincente è stata quella di ricercare il massimo realismo possibile, immergendo la vicenda in una quotidianità riconoscibile che rifugge sia dai cascami gotici sia dai mostri o dai maniaci sanguinari tipici dell’horror per entrare nel cuore delle paure più profonde.
Friedkin, in un vero e proprio stato di grazia registico provenendo dal diversissimo e riuscitissimo Il braccio violento della legge, ci racconta di una situazione familiare concreta travolta dall’irruzione di un soprannaturale sconvolgente proprio perché si insinua nella vita di tutti i giorni e ne prende possesso.
I toni da urban thriller, con l’atmosfera livida e spersonalizzante della città metropolitana, non sembrano lasciare spazio all’arrivo di un elemento “antico” e distante dalla realtà concreta come il demonio, ma proprio per questo lo rendono più significativo ed efficace. Il conflitto tra il Bene e il Male si fa largo nel distratto relativismo della vita normale della classe benestante perfettamente inserita in una grande città capitalista dove i valori spirituali passano sempre in secondo piano. In questo senso, il film è stato visto un po’, all’epoca, come un ritorno reazionario a questioni filosofico-morali-religiose che l’horror indipendente degli anni immediatamente precedenti (da La notte dei morti viventi in poi) aveva tralasciato, in una prospettiva più sociopolitica.
Ma al di là di questo, il film è un trionfo dal punto di vista della riuscita drammatica e della capacità di elaborare una struttura narrativa, poi assai usata (o abusata), perfetta nei suoi equilibri e nella sua progressione degli eventi, per confluire nel rituale esorcistico messo in scena in modo spettacolare e sensazionalistico come prima d’allora non si era praticamente mai visto e che da allora in poi sarebbe stato imitatissimo.
Gli effetti speciali, assai riusciti, e il make-up (del geniale Dick Smith) seguono questa linea con una ricerca di verosimiglianza che li rende doppiamente efficaci perché capaci di rendere credibile l’incredibile. Assai più, si deve aggiungere, di quanto si riesca a fare oggi con gli effetti speciali digitali, perfetti finché si vuole, ma assai meno “reali”.
La figura dell’esorcista diventa un nuovo eroe, una nuova icona dell’horror, una variazione più religiosa del Van Helsing stokeriano (e soprattutto hammeriano: Peter Cushing sarebbe stato perfetto nella parte, benché il sublime Max von Sydow sia anch’egli perfetto). In un cast solido e ispirato, Jason Miller e Linda Blair trovano i ruoli della loro vita, rispettivamente nella parte del prete dubbioso e della ragazzina indemoniata. Ma tutto è azzeccato, anche la colonna sonora nella quale spicca “Tubular Bells” di Mike Oldfield a suggerire in modo inconsueto, per l’epoca, tensione attraverso note insinuanti, ma per niente tonitruanti.