A metà tra commedia sociale e romantica, la storia della signora Harris parte con il lancio di una monetina. Siamo nella Londra degli anni 1950, la fortuna non bussa spesso alla porta della protagonista, una signora delle pulizie che fatica ad arrivare a fine mese, specie da quando non ha più notizie di suo marito. Le clienti sono sempre più esigenti, si ‘dimenticano’ spesso di pagarla e lei tira avanti come può. Un giorno scopre nell’armadio di una di loro uno sfavillante abito di alta moda e se ne innamora. Non si innamora solo dell’abito, chiaramente, ma dell’idea stessa di poter essere finalmente vista, guardata, ammirata, considerata.
Tutto parte da un romanzo scritto nel 1958, “La Signora Harris” di Paul Gallico. Il regista Anthony Fabian sceglie di adattarlo sullo schermo e rende ancora più potente, grazie alla suggestione della visione, il sogno della sua protagonista: un meraviglioso abito di alta moda.
Lungi dal firmare una commedia che inneggi al consumismo o alla febbre per la moda, riesce a confezionare una commedia deliziosa con una sceneggiatura brillante e un umorismo gustoso.
L’abito si fa quindi metafora di un riscatto agognato, del sogno di un’improbabile ascesa sociale e della temporanea sospensione di una serie infinita di frustrazioni, incombenze e preoccupazioni quotidiane. Per questo suo ‘amor fou’ la signora Harris sarà disposta a fare qualsiasi cosa. Cercherà di mettere da parte i soldi per pagarsi un volo per Parigi, sarà pronta a sfidare gli sguardi snob e i commenti classisti di chi non sa guardare oltre il suo atelier (la direttrice Claudine Colbert interpretata da Isabelle Huppert, formidabile anche in versione dramedy). E si trasformerà in una sorta di Mary Poppins capace di aggiustare, con il suo grande cuore, le vite altrui.
L’attrice britannica Lesley Manville ne veste perfettamente i panni, firmando una performance memorabile e misurata in una commedia che non ha altre pretese se non intrattenere chi guarda e magari indurre a riflettere sulle persone invisibili, ma estremamente capaci e preziose, che popolano le nostre vite e città.
É il personaggio più riuscito del film, gli altri – la sua amica e collega di pulizie, la modella di Dior che legge Sartre, il contabile Dior timido ma geniale – non brillano altrettanto, né per scrittura, né per originalità. Tuttavia la storia funziona, scorre, si fa avvincente e alla fine risulta difficile non innamorarsi della signora Harris e non tifare per lei, per i suoi piccoli sogni, per la sua grande rivincita che, in fondo, è la rivincita di chiunque nella vita si sia sentito invisibile o sia stato trattato come tale.
Impossibile non citare la costume designer del film, quella Jenny Beavan che vinse l’Oscar per Camera con vista, Mad Max: Fury Road e il recente Crudelia, per la maestria con cui ha curato i costumi mozzafiato del film. Una di quelle opere che sanno riconciliare chi guarda con il cinema e con il mondo, profondamente immersa nei buoni sentimenti e decisa a raccontare un’umanità che si va smarrendo. Quella di una signora umile sempre pronta a farsi in mille per gli altri, una donna che soffre, ma non diventa mai cieca né rancorosa nei confronti del prossimo. Una signora non abbiente ma carica di valori, che conosce il senso della dignità e, dopo una vita passata a subire, decide di alzare la testa e farsi rispettare. Perché nascere ricchi non è un merito, ma saper arricchire la vite degli altri sì.