1996: la scatola del gioco da tavolo Jumanji viene trovata su una spiaggia, esattamente dove l’avevamo vista al termine del film originale, ma quando il ragazzo che se la porta a casa capisce di cosa si tratta ne è molto deluso, perché gli interessano solo i videogame. Così nella notte il gioco si trasforma in una cartuccia per console. La stessa viene ritrovata oggi da quattro liceali in punizione, che scelgono i quattro personaggi restanti di un gioco per cinque player e commettono l’errore di interrompere la partita, finendo quindi intrappolati nel gioco e nel corpo dei personaggi che avevano scelto. Così il nerd è un fusto, il nero da atleta diventa spalla comica, la ragazza asociale è una sventola che scalcia a ritmo di musica e la reginetta, perennemente in caccia di like sui social, si ritrova per contrappasso nel corpo di un uomo di mezz’età in sovrappeso. Insieme dovranno superare varie sfide e riportare un gioiello incantato in cima a una montagna: solo così potranno ritornare a casa.
Se nel film del 1995 il gioco entrava nel nostro mondo, ora sono i protagonisti a entrare in quello del gioco, mostrandoci l’altra faccia di Jumanji, aggiornata però alle regole dei videogame.
Il primo personaggio che incontrano ripete infatti frasi limitate come un PNG (personaggio non giocante), imprigionato in una programmazione funzionale a spiegare cose ai “giocatori” e a consegnare loro gli oggetti necessari. Addirittura il flashback, all’interno del suo racconto dell’antefatto, viene vissuto dai giocatori come una scena non interattiva, che può solo essere subita, e il cui termine videoludico è cutscene. Senza contare che i protagonisti hanno un numero limitato di “vite” e, finché non le esauriscono, precipitano dal cielo come nuovi quando vengono uccisi. Il ragazzo nerd ovviamente sa riconoscere queste meccaniche di gioco e non manca di spiegarle agli altri personaggi e dunque al pubblico, d’altra parte il didascalismo è una delle cifre del film, che sembra aver paura di essere troppo di nicchia per risultare davvero mainstream.
La cosa più interessante e divertente del nuovo Jumanji non è però l’aspetto metaludico, davvero plateale, bensì il rapporto tra gli attori da action movie sui generis e i personaggi che sono dentro di loro. Così The Rock ha l’abilità di essere super-carismatico ma ha anche paura di un sacco di cose, perché in fondo è pur sempre giocato da un nerd; la ragazza tostissima è in realtà molto insicura; la bella nel corpo di Jack Black veicola poi con leggerezza un messaggio trans positivo, visto che dopo lo shock sembra adattarsi presto al suo corpo e apprezzarne gli organi genitali. Meno felice invece il nero atletico calato nella spalla comica, che continua a lamentarsi delle sue sfortune proprio come farebbe una spalla comica qualunque, e ha pure la stessa voce stridula (per lo meno nel doppiaggio italiano) e la propensione a gridare – come del resto aveva l’agente di polizia nero nel film originale.
Il villain, che si chiama Van Pelt come il cacciatore del primo film, sebbene sia interpretato da un attore ottimo come Bobby Cannavale incide in realtà molto poco e sono più che altro i vari animali e i suoi sgherri in motocicletta a costituire un pericolo. Il film originale è poi omaggiato anche dalla scritta “Alan Parrish Was Here” a ricordarci che il personaggio interpretato da Robin Williams era rimasto intrappolato nel mondo del gioco per circa vent’anni e dunque aveva lasciato un segno. Le regole del sequel sono un po’ diverse: il ragazzo rimasto a sua volta intrappolato non ha qui idea che nel mondo esterno siano passati vent’anni ed è convinto di essere lì da pochi mesi, inoltre la vittoria sul gioco non causa la drastica riscrittura della linea temporale del film del 1995.
La differenza principale è però che se là i personaggi erano bambini, oppure adulti traumatizzati e rimasti per certi versi bambini, qui sono invece adolescenti e infatti anche il cast con The Rock e Karen Gillan e Jack Black si rivolge a un pubblico di teenager, oltre che di trentenni nostalgici, e meno a quello delle famiglie. L’avventura e gli effetti speciali ci sono ancora, così come l’ironia, ma all’ingenuità si è sostituito l’ammiccamento più post-moderno e meta-narrativo. Il che fa però di Jumanji un’occasione parzialmente sprecata, visto che lo spirito infantile del film originale oggi è molto più raro di questo compiacimento nel cercare la complicità dello spettatore. Senza contare poi che le due ore di durata sono davvero eccessive e dopo la prima metà gli eventi risultano ripetitivi, come il succedersi di livelli in un videogame medio a cui oltretutto non si può partecipare ma solo assistere.