Riley è diventata officialmente una teenager: il che significa apparecchio per i denti, sonni inquieti e un’improvvisa voglia di rispondere male ai genitori. Il fatto è che con la pubertà la consapevolezza di sé di Riley è andata in crisi, complice anche la scoperta che le sue due migliori amiche, Grace e Bree, andranno in un liceo diverso dal suo dopo l’estate. Al momento però le tre ragazze sono in partenza per un campo estivo di hockey che durerà tre giorni, durante i quali Riley cercerà di farsi accettare da un nuovo gruppo per non correre il rischio di restare da sola in futuro. Il nuovo gruppo è una squadra di hockey composta da ragazze più grandi che la vedono come una primina un po’ “cringe”, tranne Viv, la caposquadra, che prende Riley sotto la sua ala. Ma Riley sta provando nuove emozioni e nella sala comandi della sua psiche, finora abitata da Gioia, Rabbia, Tristezza, Paura e Disgusto, arrivano Ennui, Invidia, Imbarazzo e soprattutto Ansia, potenza distruttiva che minaccia di sabotare ogni azione messa in piedi dal dream team capitanato dall’esuberante Gioia.
Era davvero difficile dare un seguito a Inside Out, geniale messa in scena dei costrutti che caratterizzano la mente umana osservati allo stato primario dell’infanzia.
Le idee altrettanto geniali alla base di Inside Out 2 sono due: la prima è quella di seguire la crescita di Riley, il cui personaggio che era basato sulla figlia di Pete Docter, regista e sceneggiatore del film originale, e qui invece “solo” produttore esecutivo (la sceneggiatura questa volta è di Meg LeFauve, che aveva co-firmato anche il copione di Inside Out, e Dave Holstein, mentre il soggetto è di LeFauve insieme a Kelsey Mann, storico animatore Pixar qui al suo debutto alla regia). Questo consente ai bambini che hanno amato il primo film e adesso sono diventati adolescenti di crescere insieme al secondo episodio, un po’ come è successo per la saga di Harry Potter.
La seconda impavida intuizione è quella di ribaltare la premessa del film precedente, che in effetti alla lunga sarebbe risultata claustrofobica, nello stabilire che siamo tutti eterodiretti da emozioni che esercitano un controllo totale dall’interno verso l’esterno: non a caso il film si chiamava Inside Out. Questa premessa rischiava davvero di farci sentire, soprattutto in giovane età, impossibilitati a gestire quei tipi strani che abitano la nostra mente, che agiscono in autonomia e in modo distinto l’uno dall’altro (altrimenti che caratterizzazioni drammaturgiche avrebbero?).
Inside Out 2 invece punta a far agire sinergicamente le emozioni, comprese quelle nuove, che cercano di soppiantare le precedenti perché questa è l’adolescenza: la necessità percepita di cambiare tutto di sé, cedendo al ricatto dell’approvazione dei coetanei e alla preoccupazione di non essere abbastanza per quel mondo che non è composto solo da genitori comprensivi e amici d’infanzia.
Inside Out 2 fa un ottimo lavoro nel ricreare la confusione e la fragilità emotiva che dominano la testa e il cuore degli adolescenti, divorati da sensi di inadeguatezza e inaciditi dal sarcasmo per nascondere le loro false sicurezze. Se il primo film finiva per accettare tutte le emozioni come legittime, questo individua (correttamente) l’ansia come tossica e inutile per gestire le complessità del reale.