Il tempo che ci vuole

La Comencini racconta il rapporto con il padre Luigi in un film libero che rende universale la sua storia personaie
Il tempo che ci vuole

Un padre entra nel laboratorio di ceramica della figlia e la maestra gli consegna la statuetta di un cane. “L’ha fatto tutto la bambina?”, chiede il padre, sorpreso dalla qualità del manufatto. Quel padre è il regista Luigi Comencini, e in quel suo dubbio è contenuta l’insicurezza con cui sua figlia Francesca farà i conti per tutta la vita, nel confronto con un genitore gigantesco per talento, fama e personalità. Un genitore che per lei ha avuto tempo, ascolto e attenzione, come l’ha sempre avuto (anche nel suo cinema) per tutti i bambini, ma nel cui cono d’ombra Francesca si è mossa a disagio, sempre preoccupata di “essere in campo” al momento sbagliato, contemporaneamente visibile e invisibile ai propri occhi e a quelli di quel padre ingombrante e venerato.

Ci vorrà tanto tempo, e il passaggio (in ombra, appunto) attraverso alcuni anni difficili, perché padre e figlia trovino un rapporto meno sbilanciato e conflittuale, e perché Francesca diventi a tutti gli effetti “collega” di un artista che ha lasciato il segno nel cinema italiano.

L’ottima notizia è che Francesca Comencini è diventata davvero una regista all’altezza di suo padre, e lo dimostra proprio con Il tempo che ci vuole, scavando a fondo e con efferata spietatezza in quel rapporto per lei così centrale e raccontandolo come se le sue sorelle e sua madre non esistessero.

Comencini ricorda “come era esclusiva la tenerezza che univa” lei e suo padre, e come certi legami cancellino tutti gli altri intorno, o quantomeno vadano raccontati senza interferenze, ancorché amorevoli. Ed è significativo, cinematograficamente parlando, che Francesca sia tornata a raccontare suo padre in forma direttissima dopo averlo raffigurato in forma traslata in Le parole di mio padre come una figura elusiva e autoritaria, appoggiandosi a Italo Svevo per mettere in scena, timidamente e di sfuggita, il suo rapporto difficile con il patriarca Luigi.

Oggi la consapevolezza adulta, forse anche la propria esperienza genitoriale, le permettono di affrontare di petto quella figura paterna che ha adombrato e allo stesso tempo illuminato la sua vita, e nel farlo la regista e sceneggiatrice riesce a raccontare la bellezza e complessità del legame fra un padre e una figlia, ma anche il ruolo centrale che il cinema ha avuto per entrambi, e nell’immaginario di noi spettatori.

Il tempo che ci vuole è infatti attraversato dal cinema, non solo quello di Luigi e Francesca Comencini, ma anche quello di chi del cinema è stato pioniere, come Georges Méliès, e di chi l’ha saputo reinventare in Italia, come Roberto Rossellini.

Il cinema secondo i Comencini è passione totalizzante, veicolo di espressione di sé, legame fra un Paese e la sua identità culturale, punto di contatto fra i registi e il pubblico. Quel cinema attraversa tutta la storia di Luigi e Francesca anche tramite piccole citazioni (il ponte sotto il quale due generazioni camminano vicine ma non riescono a parlarsi come ne L’ultimo tango a Parigi) che testimoniano il ruolo del grande schermo nella vita di entrambi, così come nella nostra.

Anche dietro le quinte di Il tempo che ci vuole c’è tanto grande cinema italiano: Paola Comencini ai costumi, Francesca Calvelli al montaggio, Luca Bigazzi alla direzione della fotografia, Marco Bellocchio alla produzione (e non solo…), e via elencando.

La regista riesce miracolosamente a legare tutto questo, e a rendere universale la sua storia personale che ripercorre con un coraggio da leonessa – tratto che apparteneva anche a suo padre e che lui alla fine ha saputo riconoscerle.

Francesca attraversa un passato doloroso raccontando anche la sua assuefazione alle droghe e imbeve la sua storia della nostalgia del padre volato in cielo (l’unico appunto negativo al film è proprio quel volo finale). Laddove Luigi era allergico all’autobiografia, Francesca “passa attraverso la spada” dei suoi ricordi nel restituire il loro legame, ma ricostruisce anche una fetta di Storia italiana fatta di set magici e spietati, corridoi altoborghesi, tragedie politiche – Piazza Fontana, il delitto Moro, le Brigate Rosse – e drammi privati.

E lo spostamento graduale del padre da divinità a creatura fragile è altrettanto commovente sullo schermo di quanto non lo sia stato per ognuno di noi, quando da figli ci siamo resi conto della mortalità dei nostri genitori e non ci è restato che accompagnarli, con tenerezza e amore.

Francesca riserva per sé lo sguardo più critico, e al padre regala la gratitudine per averle insegnato ad affrontare il comune terrore del fallimento (la frase che dirà Luigi alla figlia è di Samuel Beckett). Al centro c’è l’amorevole duello fra ogni padre e ogni figlia, ma anche quello attoriale fra un gigantesco Fabrizio Gifuni, impressionante nell’evocare Luigi Comencini con tutto il corpo – la camminata, i gesti delle mani, le espressioni del volto, il piglio autoritario e gentile – e l’ottima Romana Maggiora Vergano (ma anche Anna Mangiocavallo che interpreta Francesca da piccola).

Il tempo che ci vuole è un film profondamente libero su come la vita, solo alla fine, tira le somme, resettando priorità e scale di valori. È anche un film sui vari modi di intendere il cinema, onanistico e in primo piano o “totale” e intento a farsi capire dal pubblico: Francesca Comencini dimostra che si può “fare bene” entrambi raccontandone la possibilità di convivenza. Se “il cinema ti mostra quello che trova”, come diceva Luigi Comencini, qui ha trovato una grande autrice.

Il tempo che ci vuole
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