Il seme del fico sacro

Un'opera estremamente coraggiosa che segna un fondamentale passo. È un megafono per dare voce a chi la vede soffocare ne
Il seme del fico sacro

Amin ha finalmente ottenuto, dopo due decenni di lavoro, la promozione che attendeva: è ora addetto agli interrogatori e spetta a lui rinviare dinanzi al giudice gli accusati per una condanna che poi sarà certa. Ha una moglie devota e due figlie che studiano. La maggiore ha un’amica che viene gravemente sfigurata durante una manifestazione. Come aiutarla senza farlo sapere al capo famiglia? Per di più l’arma che e stata consegnata ad Amin al momento della promozione scompare da casa e lui rischia il carcere se non la si trova.

Un film militante dall’estremo coraggio che fa tesoro della lezione del cinema di impegno.

Sgombriamo subito il campo dal fatto che il regista sia riuscito a fuggire dall’Iran dopo una pesante condanna (che non era la prima) e che abbia potuto essere presente alla prima mondiale del film al festival di Cannes. Tutto ciò, che è indubbiamente importante, potrebbe costituire un filtro emotivo comunque distorcente rispetto al valore dell’opera in sé che invece c’è ed è molto elevato.

Perché Rasoulof realizza indubbiamente un film militante che fa del cinema un megafono per dare voce a coloro che la vedono soffocare nel sangue come accadeva nella seconda metà del secolo scorso, ad esempio dal cinema di Costa Gavras celebrato proprio a Cannes, ma fa molto di più.

Sin dalla prima inquadratura, in cui in dettaglio vediamo consegnare una pistola e delle pallottole, ci troviamo inseriti in una condizione di pericolo imminente che pervaderà con diverse valenze tutto il film. Perché di lì a breve quella realtà, quelle persone che Amin è chiamato a giudicare appellandosi a una legge divina che ritiene di poter interpretare ed applicare con rigore, inizieranno a sua insaputa ad entrare nella sua vita.

Le tre figure femminili al centro della narrazione, la madre e le due figlie, rappresentano, con i tratti della più assoluta verosimiglianza, le dinamiche che intercorrono tra generazioni. La madre, figlia di un uomo poco raccomandabile, ha trovato nel marito e nel rispetto dell’ordine un suo status che ora vede messo in discussione dalle figlie (in particolare da quella maggiore). Ma questo è solo l’inizio perché questo è un film in cui i nascondimenti fanno parte della necessità.

Amin non racconta alle figlie il suo mestiere di fornitore di teste al boia, la madre vuole tenerlo al riparo dalle loro turbolenze ed esse cercano, finché è loro concesso, di mediare con i genitori. Ma ciò che fa essere quest’opera cinema tout court è la disseminazione di segni che rimandano ad entità di potere invisibili quanto però onnipresenti.

Abbiamo visto in un recente passato Kafka a Teheran. Qui proseguiamo nel viverlo in una dimensione resa dall’attualità ancora più cogente e pervasiva (vedasi le riprese clandestine con i telefonini diffuse sui social che però al momento opportuno possono essere disattivati).

Chi detiene un potere ha sopra di sé qualcuno che, invisibile in un ufficio costellato di cartonati, lo controlla a sua volta. La fede cieca serve da alibi così come il timore della divinità si fonde con quello che nasce da una uno squillo di campanello al citofono a cui nessuno dà risposta.

Rasoulof sa portare sullo schermo l’oppressione quotidiana, e la supposta necessità del compromesso che le nuove generazioni non vogliono più accettare sapendola anche trasferire simbolicamente in tutta la parte finale del film in un villaggio abbandonato, novello ‘castello’ in cui interrogarsi sulle distorsioni di un Potere che reclama la propria onnipotenza.

Il cinema tout court (non solo quello iraniano) fa con questo film un fondamentale passo avanti nella fusione tra denuncia e sua rappresentazione sullo schermo.

Il seme del fico sacro
PROSSIMAMENTE