Steven è un cardiologo: ha una bellissima moglie, Anna, e due figli, Kim e Bob. All’insaputa di costoro, tuttavia, si incontra frequentemente con un ragazzo di nome Martin, come se tra i due ci fosse un legame, di natura ignota a chiunque altro. Quando Bob comincia a presentare degli strani sintomi psicosomatici, la verità su Steven e Martin sale a galla.
Come per la versione originaria di 2001 – Odissea nello spazio, è un minuto di buio a introdurre The Killing of a Sacred Deer, sulle note dello Stabat Mater di Schubert. L’immagine immediatamente successiva è quella di un intervento a cuore aperto, inquadrato senza veli dalla macchina da presa.
Veniamo calati così, in maniera brusca e disturbante, in una vicenda tragica di espiazione e vendetta.
Ma è già il titolo a raccontarci questo, con un riferimento esplicito alla tragedia di Euripide Ifigenia in Aulide, una delle pagine più crudeli della letteratura greca e occidentale in genere. Al resto ci pensa la messa in scena di Yorgos Lanthimos, che nasconde in ogni frame un’insidia psicologica. Dapprima la sensazione costante che qualcosa di terribile stia per accadere, quindi la rappresentazione della tragedia in atto e del suo intensificarsi man mano che la storia procede. Due sono gli atti principali. Nel primo è forte come mai prima d’ora l’ascendente kubrickiano (sottolineato dal ricorso a musiche di Gyorgi Ligeti): inquadrature impeccabili e uniche nella loro insolita angolazione e nella disposizione dei personaggi nel campo visivo, gesti di automi che rispondono direttamente agli impulsi di un regista-dio, alla rappresentazione di un concetto che si fa carne.
Una volta tradotta la sensazione di pericolo in un effettivo dramma, il sangue, la violenza e la crudeltà che si nascondono nell’animo umano hanno la meglio, alterando anche ritmo dello script e postura dei personaggi. Mentre il riferimento mitologico-letterario muta dal testo ellenico a quello biblico, tra la scelta di Abramo e il giudizio di Salomone.