Sono passati sedici anni dalla morte di Marco Aurelio e Roma è sotto il governo tirannico e corrotto di Geta e Caracalla, imperatori fratelli, quando, dalla Numidia, con un carico di schiavi, arriva in città il misterioso prigioniero di guerra Annone, che si fa subito notare per le sue capacità nella lotta e viene scelto come gladiatore da Macrino, ambizioso consigliere dell’Impero. La vittoria nei combattimenti può fare di Annone un uomo libero, ma tutto ciò a cui il giovane sembra aspirare è la vendetta nei confronti del generale Acacio, marito di Lucilla e responsabile della morte di Arishat, sua amata sposa.
Ventiquattro anni dopo l’exploit de Il gladiatore, Ridley Scott torna a calpestare la polvere del Colosseo (ma in verità il suolo è quello di Malta e del Marocco) per raccontare una storia uguale e contraria: non un grande generale che diventa schiavo, dunque, ma viceversa.
Ad accompagnarlo, stavolta, non un attore da consacrare a star ma un interprete già molto apprezzato, da pubblici anche diversi, che permette a Scott di portare sullo schermo quell’umanità che rischiava pesantemente di mancare, in un contesto in cui il digitale spadroneggia e inaridisce tutto ciò che investe. Scimmie mannare, squali tigre, rinoceronti drogati: le prove della via dell’eroe si strutturano come livelli di un gioco grandguignolesco, mentre, nel segreto dell’animo, il nostro fa pace col passato traumatico e si prepara a prendere in mano il ruolo a cui è predestinato dalla nascita.
La rabbia di Achille e l’infanzia di Luke Skywalker si assommano dunque nella figura di Lucio Vero Aurelio, mentre il fantasma di Massimo Meridio aleggia goffamente sul tutto come un modello da non dimenticare. E il problema del film sta proprio lì: nella ricerca spasmodica di quel qualcosa che possa richiamare il primo capitolo, e garantire possibilmente lo stesso successo.