Risale al 1937 la prima proposta di legge presentata al Senato statunitense che chiedeva l’abolizione del linciaggio degli afroamericani, e fu respinta. Lo ricorda una didascalia iniziale, una foto che mostra un gruppo di bianchi spettatori di un linciaggio, e un’altra didascalia che spiega che la cantante Bille Holiday divenne famosa anche per la sua canzone Strange Fruit (scritta da Abel Meeropol e registrata dalla Holiday nel 1939). Una visione di corpi straziati, pendenti dagli alberi, lasciati lì come preda di uccelli, al vento, al sole. La rappresentazione netta e inequivocabile degli effetti di cosa resta dopo un linciaggio.
Con questo prologo, e la cornice di un’intervista di fine carriera accordata a un personaggio immaginario, la regia introduce lo spettatore al momento in cui Eleanora Fagan, nata a Philadelphia nel 1915 e più nota col nome di scena di Billie Holiday, ha già conquistato un ampio pubblico, senza differenze di classe né di colore, come al Café Society di New York, dove neri e bianchi siedono vicini. Lady Day è tenuta sotto stretta osservazione da Harry Anslinger (Garrett Hedlund), capo del Federal Bureau of Narcotics sotto cinque presidenti (da Hoover a Kennedy), che vede nella canzone, scritta da un comunista di origini russe, un potente invito alla rivolta. Cantarla le può costare il ritiro della licenza per esibirsi nel circuito dei jazzclub di New York. I tentativi di incastrarla per possesso di sostanze illegali la porteranno in carcere e proseguiranno fino alla stanza d’ospedale dove morirà.
Holiday è isolata, ingannata e sfruttata anche dalla sua gente, nonostante i tentativi di disintossicazione è dipendente, come il suo sparring partner Lester Young, da alcol, oppio, eroina. Anestetici ad un passato di abuso e abbandono che si riverbera nelle relazioni private e nei tre matrimoni: con Jimmy Monroe, Joe Guy, Louis McKay.
Sulla “caccia alla donna” si concentra il film di Lee Daniels, di grana grossa e tonalità cariche nella messa in scena e molto chiaro nella tesi: con il pretesto della lotta alle droghe e lo scopo di colpire tutta la comunità afroamericana, il governo ha fatto la guerra alla cantante in quanto personalità visibile. Il punto di partenza non è una biografia ma la sceneggiatura che Suzan Lori-Parks (premio Pulitzer per la drammaturgia nel 2002 per il testo Topdog/Underdog) ha tratto da un capitolo del libro “Chasing the Scream” di Johann Hari dedicato a Holiday. In questo senso il personaggio dell’agente federale Jimmy Fletcher, messo da Anslinger alle costole dell’artista (Trevante Rhodes, scoperto da Barry Jenkins in Moonlight) rappresenta la graduale presa di consapevolezza.
Nonostante il trattamento schematico, qualche insistenza sugli aspetti di degrado e di orgogliosa sguaiataggine dell’entourage, Gli Stati Uniti contro Billy Holiday si distingue per la prova sorprendentemente fluida di Andra Day, una nomination all’Oscar come protagonista. Classe 1984, a sua volta cantante, famosa per il singolo “Rise Up”, è perfettamente a suo agio negli abiti (di Paolo Nieddu e Prada) e nelle acconciature lucide e gonfie, e con voce roca modula con grande disinvoltura e mestiere un buon numero di brani, da “Solitude” a “All of Me”, da “Ain’t Nobody Business” a “Lover Man”, da “Gimme a Pigfoot and a Bottle of Beer” a “God Bless the Child”.
Tra sporadiche sovrapposizioni tra il girato attuale e le immagini d’epoca – tra cui l’impressionante foto iniziale e una ripresa del funerale – il film segue una rumorosa, banditesca carovana artistica e alcune vivaci presenze queer: l’assistente Miss Freddy (Miss Lawrence) e Reginald Lord Devine (Leslie Jordan), immaginari, e le reali Roslyn (Da’Vine Joy Randolph), amica e parrucchiera di Holiday, e attrice Tallulah Bankhead (Natasha Lyonne), l’amante hollywoodiana, risolta in una parentesi decorativa. Va comunque riconosciuto al film il merito di riscoprire e riattualizzare il primato artistico di “Strange Fruit”. Curiosità per cinefili: il commento musicale di una scena di “buco” viene dallo score di Alberto Iglesias per Tutto su mia madre.