Seattle. Elgie e Bernadette sono una coppia con figlia (Bee), benestante e apparentemente felice. Elgie, però, è sempre più occupato a sviluppare il proprio progetto per Microsoft, mentre Bernadette vive con difficoltà crescente i rapporti con il vicinato e la sua condizione di casalinga. Perché Bernadette, anche se nessuno lo sa, era uno dei più brillanti architetti d’America. Quando l’equilibrio tra le tensioni contrapposte sembra cedere, Elgie decide di correre ai ripari e di intervenire, prima che la depressione della moglie abbia il sopravvento.
L’animo irrequieto di Richard Linklater rifiuta sempre la possibilità di sedere sugli allori. Per il regista texano a ogni nuovo progetto corrisponde una sfida, una nuova possibilità di rimettersi in discussione e di cimentarsi con qualcosa di nuovo. Sbagliando, se necessario (e Newton Boys o Bad News Bears sono lì a dimostrarlo).
Che fine ha fatto Bernadette? – che solo nel titolo italiano strizza l’occhio a Che fine ha fatto Baby Jane? di Robert Aldrich – non appartiene né alle opere indimenticabili né agli errori di percorso del regista di Boyhood. Ma nella sua ricercata anomalia, Bernadette rimane quintessenza della poetica di Richard Linklater e della sua inesausta interrogazione su cosa comporti passare a un’età più matura, in termini di rinunce e di opportunità.
I dolorosi bilanci in chiaroscuro della mezza età, in genere appannaggio di giocatori di baseball o musicisti rock fallimentari, toccano stavolta a un architetto. Per la precisione a un architetto donna, talentuosissimo e costretto dalle circostanze – una delusione professionale e una tormentata maternità – a fare un passo indietro. O meglio di lato, abbandonando gli ampi spazi soleggiati di Los Angeles in favore della piovosa e provinciale Seattle, dove l’ha condotta il progetto hi-tech ideato dal marito e acquisito da Microsoft.
Elgie istruisce delle macchine a interpretare i principi che guidano le emozioni umane, mentre Bernadette pratica l’esatto opposto, donando ogni dettaglio del proprio privato a Manjula, un presunto assistente virtuale indiano che cela un’identità ben più sinistra. Il punto rimane il medesimo che angosciava il personaggio di Patricia Arquette al termine di Boyhood: cosa resta del sacrificio di una vita? Una donna dispone di una terza scelta che non sia la solitudine o il fatto di negarsi per crescere i propri figli? In tempi di rivendicazioni legittime, ma che talora sconfinano in strumentalizzazione o persecuzione ad personam, quella di Maria Semple – autrice del bestseller da cui il film è tratto – e poi di Linklater sembra, nella sua semplicità, una delle cose più genuinamente femministe dette da eoni in qua.