In un paesino del Galles rurale, il solitario e bizzarro Brian lavora come tuttofare per le signore della zona e si diverte a costruire ingegnosi congegni meccanici che funzionano di rado. Dopo aver trovato la testa di un manichino nei rottami che si diverte ad assemblare, Brian costruisce un robot dalle dimensioni umane. In una notte di tempesta, incredibilmente il robot si anima e comincia a interagire con Charles, parlando un perfetto inglese imparato dal dizionario e dicendo di chiamarsi Charles Petrescu. Brian finalmente trova un amico in Charles, ma i problemi cominciano quando il robot comincia a chiedere di uscire dalla loro proprietà e una volta convinto Brian a portarlo con sé durante i suoi lavori viene notato da Hazel, una giovane donna di cui Brian è innamorato…
Brian e Charles è una stramba storia d’amicizia e conoscenza reciproca, ambientata in una provincia inglese, rurale e arretrata, che mostra in filigrana le derive di un popolo tentato dall’isolazionismo e della paura del diverso.
Quanti personaggi come Brian Gittins abbiamo visto nella storia del cinema? Quantomeno, lo strambo inventore del film di Jim Archer ricorda la versione invecchiata dei Microbo & Gasolina di Michel Gondry, con la stessa fantasiosa creatività e innocenza. A cambiare, ovviamente, è l’età, e dunque il grado di accettazione della società di un uomo sulla soglia dei cinquant’anni, solitario, eccentrico nelle abitudini e nel modo di vestire: un dropout, insomma, un diverso.
L’arrivo miracoloso di Charles nella sua vita segna l’incontro con un altro diverso – più evidente, più esposto agli attacchi della comunità – e la nascita di un legame fra diversi che s’impone per la sua unicità. Inevitabilmente, seguendo le regole della commedia drammatica e dell’apologo dal sottofondo politico, l’amicizia fra i due protagonisti scatena la reazione di chi non conosce altro che il proprio mondo.
È sintomatico, del resto, che la vicenda si ambienti in una delle terre che sei anni videro trionfare il voto popolare a favore della Brexit, come emblema di una nazione britannica spaventato dall’altro e dalle proprie debolezze. La rappresentazione dei nemici che vorrebbe prima acquistare e poi bruciare Charles è significativa anche da un punto di vista estetico: tanto i membri più aggressivi e ignoranti della comunità rurale sono rozzi e trasandati, tanto il robot che ha preso vita – che come dice lo stesso Brian per camuffarne la natura sembra «una lavatrice con un camicia da uomo» (con in più una testa di gomma!) – ha comunque un aplomb very British, con l’occhiello e un’eleganza che lo fa vagamente somigliare all’attore Jim Broadbent (sotto la maschera si cela però lo sceneggiatore Chris Hayward, per l’occasione attore).
La metafora del film è piuttosto elementare, ed è esattamente ciò a cui puntano il regista Jim Archer, lo stesso Hayward e il co-sceneggiatore David Earl, a cui si deve in realtà la creazione del personaggio di Brian, prima nei nei suoi spettacoli da stand-up comedian, poi nei suoi show radiofonici. Fin dalla scelta di far parlare Brian con lo spettatore, nel corso dei monologhi alla macchina da presa che rimandano chiaramente all’origine «on stage» della vicenda, il film cerca un senso d’empatia immediato e diretto. La follia del personaggio, replicata dal suo strano amico, è la follia che salverà il mondo: quel mondo così chiuso e gretto nel quale prende vita e che non sa accettare alcuna diversità.
Così, anche il tono volutamente trasandato del film, piccola produzione nata proprio per sfruttare il successo di Earl, acquisisce una sua particolarità, in sintonia con l’umile stramberia di cui canta le lodi. Brian e Charles è insomma un classico «feel good movie» all’inglese: forse non lascerà molte tracce dietro di sé, ma trova il tempo e il modo di farsi voler bene durante la visione.