Il critico di Repubblica Roberto Nepoti dopo aver visto in anteprima il film BLADE RUNNER 2049
Senza fare spoiler, il sequel di Villeneuve riprende il film di Ridley Scott in modo coerente e funzionale al racconto, con sequenze d’azione magistrali. All’ambientazione notturna del prototipo, il regista canadese alterna altre in ocra e rosso, polverose e altrettanto post-apocalittiche
LEGENDA
O da evitare
OO si può perdere
OOO si può vedere
OOOO da vedere
OOOOO da non mancare
OOOOOO indimenticabile
Rispetteremo l’accorato appello di Denis Villeneuve a non fare spoiler, per non guastare le sorprese allo spettatore. Ma poiché le rivelazioni si susseguono dal primo all’ultimo dei 163 minuti di Blade Runner 2049, raccontarne la trama non è facile. Basti sapere che, trent’anni dopo i fatti del prototipo diretto da Ridley Scott, un altro cacciatore di replicanti chiamato sinteticamente K (Ryan Gosling) ha preso il posto di Rick Deckard (Harrison Ford) nel dare la caccia alle cyber-creature.
In apertura ne fa fuori subito una, il gigantesco Sapper Morton (Dave Bautista); poi la sua capa Madame (Robin Wright) gli assegna un nuovo compito, che innesca l’azione principale del film. Bisogna aggiungere che, nell’intervallo tra i due episodi, il megalomane Wallace (Jared Leto) ha preso in mano la Tyrell per produrre una nuova stirpe di replicanti: il che comporta l’esigenza di “terminare” gli ultimi esemplari della generazione precedente. Le cose prendono una piega dinamica allorché si scopre l’esistenza di una creatura ibrida, che potrebbe assumere un ruolo messianico: K è incaricato di cercarla mentre la micidiale Luv (Sylvia Hoeks), al servizio di Wallace, intende sopprimerla.
Sempre dribblando gli spoiler, il centro drammatico del film si può riassumere in una domanda: i ricordi dei personaggi sono reali, oppure “impianti” nella testa di replicanti? Che è poi la stessa, a ben vedere, del film del 1982. Rispetto al quale Villeneuve e gli sceneggiatori Hampton Fancher (anche autore del soggetto) e Michael Green hanno compiuto un ottimo lavoro. I secondi non tradendo mai né lo spirito né la lettera del prototipo, cui fanno continuamente riferimento: e non per puro citazionismo, ma in modo sempre coerente e funzionale allo sviluppo del racconto.
Anzi, vorremmo dire che il sequel – almeno in un punto – rende al celebre romanzo di Philip Dick, classico della letteratura cyberpunk il cui titolo originale era “Do Androids Dream of Electric Sheep?”, un servizio migliore del film precedente. Qui infatti ci sono diversi riferimenti agli animali (e compare anche un cane), che nel libro hanno un ruolo simbolico fondamentale ma che Scott aveva lasciato per strada. Tutto l’universo distopico che conoscevamo subisce un refresh, però nel senso di diventare ancora più cupo, alienato e degradato. Viene introdotta anche una variante ai personaggi femminili: Joi, graziosissimo ologramma innamorato (Ana De Armas) che offre a K un’inedita parentesi sentimentale. Quanto a Harrison Ford, come già in Star Wars: il ritorno della forza, compare solo a film avanzato; però serve a tirare tutte le fila dell’azione.
Se la sceneggiatura rispetta, rielaborandolo, l’universo del film che lo ha generato, non diversamente si comporta l’iperdotato Villeneuve con quello iconografico. I richiami alla megalopoli di Los Angeles – solcata da oggetti volanti, piena di insegne pubblicitarie, brulicante di un’umanità disperata – sono diretti; però alle sequenze notturne di Scott il regista canadese ne alterna altre in ocra e rosso, polverose e altrettanto post-apocalittiche. Non basta. Se Blade Runner 2049 è già in odore di cult-movie, lo si deve anche ad alcune sequenze d’azione magistrali: come la lotta tra K e Deckard nel locale in cui sta cantando un ologramma di Elvis o il confronto finale tra i buoni e la cattiva.
BLADE RUNNER 2049
Regia di Denis Villeneuve
Con Ryan Gosling, Harrison Ford, Ana de Armas, Sylvia Hoeks, Robin Wright, Dave Bautista
Altre informazioni sul film:
Il teaser e poi il trailer di Blade Runner 2049 hanno scatenato un effetto dirompente e forse inatteso. La forza suggestiva di un sequel che nessuno aveva previsto e forse nemmeno auspicato si è rivelata improvvisamente. Una parte di noi aveva bisogno di tuffarsi nuovamente nelle strade della Los Angeles più inospitale che si possa immaginare, di rivivere le emozioni di un film che per molti ha rappresentato una finestra sul futuro, una sconvolgente sfera di cristallo. Di Blade Runner pochi ricordano i dettagli della trama, ancor meno le personalità quasi abbozzate dei personaggi. A generare il mito furono le scenografie cyberpunk e l’atmosfera di disillusione e di pessimismo tipica del noir, innalzata qui all’ennesima potenza. Non c’è un tradizionale viaggio dell’eroe nè una distinzione netta tra buoni e cattivi. La natura sfumata, scettica, dubitativa e profondamente umana di Blade Runner è ciò che più di ogni altra cosa ha contribuito a renderlo speciale e filosoficamente vicino allo spettatore.
Ancor più di JJ Abrams, che ha affrontato la saga di Star Wars come si fa con un’antica e inattaccabile mitologia, narrata e semplificata da una generazione di molto successiva, Villeneuve pare rispettoso, quasi ossequioso verso l’originale di Ridley Scott. In un sequel – che ha tutta l’aria di un remake o di un upgrade, o almeno è ciò che vuol far credere il trailer – il regista e il direttore della fotografia Roger Deakins riprendono tutto del capostipite: le cicatrici, la postura del taciturno “Blade runner” Rick Deckard, le insegne luminose di aziende che furoreggiavano negli anni 80 (come Atari, finita in bancarotta nel 2013), gli occhi verdissimi e le fascinose replicanti, programmate per piacere.
L’incontro del nuovo protagonista, l’agente K, con Rick Deckard è una nuova epifania, dopo quella del ritorno di Han Solo due anni fa. Il trailer lascia capire che il tutto avverrà in un paesaggio apocalittico: un deserto interrotto solo da rovine, un museo a cielo aperto abbandonato, dall’estetica a metà tra gli alieni di Roland Topor in Il pianeta selvaggio (René Laloux, 1973) e gli automi di Metropolis di Fritz Lang (e così si doveva intitolare originariamente il sequel pensato da Scott). Un passaggio del testimone tra due anime gemelle. O forse no?
Di Blade Runner esistono due versioni, che differiscono per poche scene, sostanzialmente concentrate nel finale. In quella uscita originariamente in sala una voce over racconta l’epilogo, lieto fine escapista in cui Deckard fugge con Rachel, unico replicante senza scadenza; nel Director’s Cut invece aleggia il sospetto che Rachel subisca il medesimo destino dei suoi simili. Come è andata effettivamente? Questo è uno dei principali quesiti a cui dovrà rispondere il sequel di Denis Villeneuve.
Se il teaser si concentrava su Deckard e K, il trailer introduce dei nuovi personaggi. A partire da un villain incarnato da Jared Leto, nuovo “creatore” di replicanti e probabile nemesi di K. Sempre che, come nel predecessore, i confini tra buoni e cattivi non si facciano sempre più sfumati, come nello spirito della migliore letteratura hard boiled. Ad Ana de Armas, invece, rivelazione sexy di Knock Knock di Eli Roth, il compito di rappresentare la sensualità dell’androide programmato per il piacere altrui, sulla scia delle Rachel e Pris di Sean Young e Daryl Hannah.
Preservare le preziose atmosfere metropolitane del Blade Runner di Scott è una priorità per Blade Runner 2049. Di qui la scelta di affidarsi nuovamente a Hampton Fancher, sceneggiatore del primo film poi sostituito da David Webb Peoples per volere di Ridley Scott. Fancher in questi anni è sostanzialmente svanito nel nulla come Deckard, ed è curioso il suo “filologico” ripescaggio. Ad affiancarlo ora è Michael Green, un cv da veterano di serie tv. Di certo fa meno paura di 35 anni fa lo spettro di Philip K. Dick: se il suo Il cacciatore di androidi (o meglio Do Androids Dream of Electric Sheep?) aveva un labile legame con il primo film, non ne ha alcuno con il suo sequel