Alla sua terza regia e coerente con una filmografia aderente a un gruppo sociale, a una coscienza politica, a una storia, a un territorio e a una forma artistica (Antwone Fisher, The Great Debaters – Il potere della parola), Denzel Washington realizza Barriere, adattamento della pièce di Auguste Wilson.
Pescato da “The Pittsburgh Cycle”, una raccolta di dieci drammi sul bisogno di emancipazione sociale della comunità afro-americana, Barriere come il blues lascia la parola a una minoranza. Minoranza a cui appartiene il protagonista, in conflitto permanente con la vita e alla ricerca di un’identità sociale. Alla maniera dell’opera originale, la trasposizione di Washington ha una portata universale ma infusa da una marca culturale esplicitamente afro-americana, il blues. Il blues aderisce al teatro di August Wilson come una trama che permette di stabilire un filo conduttore tra i differenti drammi del ciclo. Dieci storie per dieci canzoni che assumono il ruolo di guida spirituale e accompagnano i personaggi nella loro ricerca, sovente dolorosa, di un riconoscimento.
“Blue” è la canzone di Troy, ereditata dal padre collerico e violento e trasmessa al figlio e alla figlia che la cantano insieme nell’epilogo, omaggiando la memoria del genitore e riconoscendo nel medesimo ‘bene’ il legame fraterno. Se per Raynell è un canto che culla, per Cory è un gesto di perdono che gli permette di fare pace col padre e di avanzare nella vita. Chiave di lettura primordiale per avventurarsi nel dramma, la “Blue” intonata dall’attore annulla la distanza tra monologo e assolo. Il blues, indissociabile dal teatro di Wilson, è l’ultima risorsa a cui ricorre Troy per farsi intendere dai figli e dalla moglie, coro greco che replica e ammonisce la sua incontinenza. Incontinenza verbale che manipola e ingombra un cortile progressivamente svuotato e ridotto ai soli spettatori, che Denzel Washington affronta in camera.
Il cortile, spazio scenico che ospita il talento oratorio di Troy, si apre alla strada e muove verso il deposito in cui protagonista è occupato, allargando lo sguardo del pubblico avvitato a una performance di parole che (ri)compongono il suo mondo. Parole che nella versione originale (black english) suonano come un assolo di tromba, dove le pause, proprio come quelle musicali, permettono all’attore di riprendere fiato. A contenere la sua esuberanza, a riportare i suoi racconti alla dimensione reale, a mediare tra padre e figli, tra personaggio e spettatore, tra finzione e realtà, c’è la Rose di Viola Davis, già partner di Washington a Broadway nel 2010. Contrappunto inesorabile alla sua magniloquenza, Rose incarna il ruolo capitale della coesione e della trasmissione sociale. È il mistero di bellezza che accorda il bisogno di perdono e redenzione dei personaggi di Wilson. Personaggi che non sono mai garanti di una rivendicazione.
Lo spazio teatrale in cui si mettono in scena non ha altra funzione che quella di far risuonare la loro voce, di rimandare alla società americana i propri fantasmi di schiavitù. Attraverso una regia senza eccessi, al servizio del testo e dell’attore, Denzel Washington trova un Troy poderoso e solenne, assediato come la città di cui porta il nome. Chiuso dall’interno sfida l’esclusione sociale dal sogno americano, dietro barriere che qualche volta escludono e qualche altra proteggono. Per Rose sono il confine al di qua del quale conservare l’unione familiare, per Troy il confinamento al di là del quale regna il disordine della società americana, che rifiuta ma in cui vorrebbe trovare il suo posto. Narratore ed eroe insieme, il protagonista ‘scrive’ la sua storia attraverso il prisma della comunità afro-americana e dentro un cortile convertito in campo di baseball, vestigia di una gloria sportiva passata e un fuoricampo esistenziale mai battuto