SHOSHANA (ORIGINAL VERSION)

Un esperimento coraggioso che parla della Palestina, tra thriller politico, archivi originali e love story
SHOSHANA (ORIGINAL VERSION)

Shoshana Borochov (Irina Starshenbaum, già in Summer di Kirill Serebrennikov) è un’ebrea arrivata a Tel Aviv alla fine degli anni Venti con madre e fratello dall’Ucraina, insieme ad altri circa centomila europei. Una popolazione di esuli che a metà anni Trenta raggiungerà il mezzo milione di individui. È il periodo tra le due guerre, detto Mandatory Palestine, ossia la Palestina mandataria sotto il controllo britannico (1920-1948). Un prologo di immagini tratte da immagini di cronaca e cinegiornali d’epoca commentate dalla voce di Shoshana in voce fuori campo riassume i primi scontri tra arabi e ebrei per la rivendicazione della Palestina. In particolare, l’esecuzione di Shlomo Ben Yosef, giustiziato nel 1938 per aver attaccato con armi da fuoco un autobus pieno di civili arabi e automaticamente divenuto martire della causa sionista.

Giornalista, spirito libero e indipendente, impegnata, in continuità con l’idea del padre, nell’utopia dei kibbutz come membro di Haganah, formazione clandestina di autodifesa degli insediamenti ebraici, Shoshana inizia una relazione con Tom Wilkin (Douglas Booth), agente della squadra antiterrorismo della Polizia britannica palestinese.

Che Shoshana, ma anche il suo gruppo di compagni, guardano con sospetto, imputando agli inglesi l’escalation della violenza. Ma se Tom impara l’ebraico e si tiene a distanza da metodi troppo coercitivi, il nuovo funzionario di polizia Geoffrey Morton (Harry Melling) arrivato in città ha metodi spietati ed è determinatissimo a catturare Avraham Stern (Aury Alby), poeta ebreo leader del gruppo paramilitare Irgun, che rivendica a colpi di attentati esplosivi il possesso di quella terra al popolo di Israele.

Progetto che risale ai tempi di A Mighty Heart – Un cuore grande (2007), quando il regista era stato invitato al Jerusalem Film Festival, Shoshana è liberamente ispirato alla storia della figlia di Ber Borochov, tra i teorici del sionismo socialista, che, come dice la protagonista nel film, “era convinto che arabi e israeliani potessero convivere in Palestina”. Dopo essersi imbattuti nella sua storia, Winterbottom e il produttore Josh Hyams hanno fatto ricerche allo Steven Spielberg Jewish Film Archive per approfondire il periodo antecedente alla fondazione dello stato di Israele, nel 1948, a sua volta conseguenza della risoluzione 181 dell’ONU, che decretò la partizione della Palestina tra ebrei e arabi.

Scritto dal regista con Laurence Coriat e Paul ViraghShoshana sceglie di concentrarsi su un aspetto meno noto della questione israelo-palestinese, cioè il ruolo del colonialismo britannico tra le due guerre, per criticarne violenza e paternalismo, forse persino l’indecisione di un governo che non ha piena comprensione del fenomeno (il regista nelle note stampa a riguardo cita per analogia l’occupazione statunitense di Iraq e Afghanistan). D’altra parte, indaga attraverso il personaggio che dà il titolo al film quell’ideale progetto originario riassunto dalle didascalie iniziali: “Per secoli la Palestina è stata un tranquillo ristagno dell’Impero Ottomano, con una minuscola comunità ebraica. Poi nel 1897 si è tenuta in Svizzera la prima conferenza dell’organizzazione sionista mondiale. Migliaia di persone sono partite dall’Europa determinate a costruire Israele qui nella Terra Promessa”.

La forma cinematografica con cui il film riassume quel periodo è un ibrido originale, anche se non sempre perfettamente fluido, di solida finzione e materiale documentario a forte impronta colonialista (cinegiornali British Movietone News, Pathe Gazette e Gaumont British News), con il punto di vista di Shoshana ricreato in sceneggiatura tramite una voce narrante. Pur nell’eterogeneità dei materiali, le transizioni da una dimensione all’altra e dal bianco e nero al colore sono ardite e suggestive, così come tese ed efficaci risultano le scene di cospirazione terroristica, tristemente anticipatrici di innumerevoli altre stagioni e strategie di scontro, odio, morte (nel 2022 Winterbottom ha anche co-diretto con Michael Sawwaf Eleven Days in May, documentario sul bombardamento israeliano che uccise 60 bambini a Gaza nel 2021, inedito da noi).

Il film vive del paradosso per cui la storia d’amore tra Shoshana e Tom – realmente accaduta e che si fa metafora della (im)possibilità di pace tra nemici – che dovrebbe guidarlo e sorreggerlo resta schiacciata dalle altre piste narrative e stenta a farsi preponderante, riaccesa solo dal ricorrere di “The Man I Love” di George e Ira Gershwin. Se in qualche momento si ha la sensazione di riconoscere ambienti e paesaggi noti, è perché, non trovando nella Tel Aviv odierna, troppo moderna, le abitazioni basse degli anni Trenta, il film (prodotto da Revolution Films, Bartleby Film e Vision Distribution) è stato girato completamente in Puglia, tra le province di Taranto, Lecce, Brindisi. Di questo esperimento coraggioso, che torna ad un tempo antecedente alla fase più violenta del conflitto, è più che apprezzabile lo sforzo di approfondire una pagina storica dimenticata e di mettere la questione in relazione al contesto più ampio e complesso delle conseguenze della Prima guerra, dell’imminenza della Seconda, e dei pesi in gioco sullo scacchiere della politica globale.

SHOSHANA (ORIGINAL VERSION)
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