Nata a Milano il 10 settembre 1930 da Alberto Segre e Lucia Foligno, per il fatto di essere ebrea – per quanto di famiglia “agnostica” e perfino fatta battezzare obtorto collo dal padre – nel 1938 Liliana Segre si ritrova espulsa dalla scuola elementare a causa delle leggi razziali (o “razziste”, nelle sue parole).
Rimasta orfana di madre nei primi mesi di vita, dopo aver affrontato da sola le prigioni di Varese e Como, è arrestata col padre nel 1943 e con lui entra in quella di San Vittore a Milano. Il 30 gennaio del 1944 da lì, passando per la Stazione Centrale, sono condotti al famigerato binario 21 e caricati sul vagone merci che li porta ad Auschwitz-Birkenau. Lì, il padre e i nonni paterni vengono bruciati nei forni, mentre lei riesce a sopravvivere al freddo e alla fame e a fuggire dal campo a piedi, come in un esodo.
Dopo il rientro in Italia, nel silente imbarazzo dei suoi concittadini, tiene dentro di sé il trauma dell’esperienza. Fino a quando, a distanza di 45 anni, dopo l’esperienza della maternità e quella di una profonda depressione, non le è più possibile farlo, e decide di parlarne pubblicamente, in particolare nelle scuole.
Nel 2018, a 80 anni dalle leggi razziali fasciste, a sorpresa il presidente Mattarella la nomina senatrice a vita e lei si impegna, tra il 2018 e il 2022, nella creazione di una Commissione per il contrasto dei fenomeni dell’intolleranza, razzismo, antisemitismo, istigazione all’odio e alla violenza; paradossalmente, a causa delle minacce di morte e dei messaggi di odio che riceve, le viene assegnata una scorta. È tra le fondatrici del Memoriale della Shoah di Milano, attiguo alla stazione da cui fu deportata per la Germania, dove ha voluto che venisse scolpita a lettere cubitali la parola “indifferenza”. Nel suo primo discorso al Senato, riportato parzialmente nel film, si augura di poter “aiutare gli italiani a respingere la tentazione dell’indifferenza”.
Presentato alla Festa del Cinema di Roma nel 2024 (Special Screening), Liliana di Ruggero Gabbai è un ritratto completo e ampiamente autorizzato, in cui si alternano tre piani temporali di racconto: gli anni delle leggi razziali, la Seconda guerra e i campi di concentramento; il momento in cui per la prima volta Segre decide di parlare di quell’esperienza, negli anni Novanta; e infine il presente, in cui la senatrice a vita si racconta ritornando a Pesaro, luogo dove nel 1948 conobbe suo marito Alfredo Belli Paci, e a Milano. Ma per scelta non ad Auschwitz, di cui vediamo però scorrere immagini recenti. Grazie a un archivio inutilizzato che risale a una regia precedente di Gabbai, Memoria – I sopravvissuti raccontano (1997), realizzato con il CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) di Milano e gli storici Marcello Pezzetti e Liliana Picciotto (qui in veste di consulente storica, intervistò Segre nel 1994), riaffiora invece una prima testimonianza video inedita di una Segre di mezza età, in cui per la prima volta il fare memoria cede, anche se minimamente, all’emozione.
Oltre a ripercorrere, a beneficio di tutti, la sua parabola eccezionale e la trasformazione, tardiva eppure naturale, in testimone della Shoah e simbolo dell’antifascismo, il film indaga un tema essenziale e poco trattato, per lo meno nel nostro cinema: il rapporto tra la generazione dei sopravvissuti ai campi e quella dei loro figli. Per la prima volta accanto a Segre appaiono e testimoniano anche i suoi: Alberto, Luciano e Federica (e i nipoti Davide e Filippo). Una delle tante famiglie spezzate da un non detto abnorme, un vissuto indicibile e disumanizzante che trova modo di trasmettersi come un DNA, di continuare a pesare e influenzare le esistenze anche quando diventa esplicito, noto, mediatizzato. “Non ero pronta ma avevo bisogno di farlo”, dice Segre, con quel misto di dolcezza e durezza ben sottolineato da Ferruccio De Bortoli, tra gli intervistati che parlano di lei, quella precisione e pertinenza di linguaggio che le fa scandire ricordi e affermazioni senza un errore, un’esitazione.