PARTHENOPE è una incantevole giovane donna nata dalle acque che seduce ogni uomo che incontra, persino il fratello Armando, suo primo e indimenticabile amore. Parthenope è anche la sirena al centro del mito fondante della città di Napoli che, come scriveva Matilde Serao nelle Leggende napoletane, “vive, splendida, giovane e bella, da cinquemila anni, e corre ancora sui poggi, erra sulla spiaggia, si affaccia al vulcano, si smarrisce nelle vallate”. E la protagonista di Parthenope di Paolo Sorrentino fa esattamente questo, perdendosi continuamente e attirando a sé scrittori omosessuali, docenti universitari, prelati addetti ai miracoli e boss della camorra. Ma il più devoto resta Sandrino (col diminutivo che Sorrentino affida ai suoi alter ego), amico fin dalla perfetta estate in cui lui e la sua sirena, e Armando con loro, “sono stati bellissimi e infelici”.
Come può raccontare Napoli un suo figlio che l’ha lasciata alle spalle tanto tempo fa e che ora, all’avvicinarsi dell’età matura, acutamente la rimpiange, amandola e detestandola nello stesso respiro?
Parthenope prosegue il viaggio a ritroso di Paolo Sorrentino verso la sua città natale lasciato in sospeso con È stata la mano di Dio, quando Fabietto percorreva su un treno il tragitto che l’avrebbe ricollocato a Roma, abbandonando quella città che è sì “na’ carta sporca”, ma non è vero che “nisciuno se ne importa”, perché al regista importa assai della sua Napoli bella e perduta.
“Come è enorme la vita, ci si perde dappertutto”, recita la citazione di Céline che apre i film, e che dà la misura dello smarrimento di Sorrentino in cui è dolce, e allo stesso tempo doloroso, naufragare. E il regista affida alla sua protagonista quello struggimento che si esprime al meglio proprio attraverso le canzoni, dalla straziante “Era gia tutto previsto” di Riccardo Cocciante, che sottolinea la qualità inesauribilmente prevedibile di una città fatta per strapparti il cuore, a “Che cosa c’è” di Gino Paoli e Ornella Vanoni, che evoca l’inspiegabilità (e inevitabilità) di ogni innamoramento, e soprattutto al “suono suonante che non riesci mai ad inscatolare” che è la musica di Enzo Avitabile.
Parthenope peregrina attraverso le mille facce di Napoli, con quella seduttività naturale che porta scompiglio e confusione, malattia (il colera degli anni Settanta) e risanamento, e che scioglie il sangue “int’e vene” come nell’ampolla di San Gennaro. L’autrice della fotografia è ancora una volta la pirotecnica Daria D’Antonio, la più appropriata per raccontare un eterno femminino multiforme, e il montatore Cristiano Travaglioli fa fluire ogni incarnazione di Parthenope in quella successiva.
Dal 1950 ad oggi la sua Parthenope ha sempre la risposta pronta ma non è in grado di porsi le giuste domande, non sa niente ma le piace tutto, è affamata di conoscenza e assetata di libertà. Sorrentino accarezza il suo corpo pagano come la plasticità di ogni superficie a lui cara: l’acqua, la pietra, la luce azzurra dei panieri calati dalle finestre. Cammina “a braccetto con l’orrore”, creando rituali grotteschi che come sempre devono molto a Fellini: e se La grande bellezza richiamava La dolce vita, Parthenope è un Amarcord pieno di rimpianti verso quella città confusa fra “l’irrilevante e il decisivo”, ma attraversata da una dea che “non si vergogna mai” e che passa senza soluzione di continuità (possibilmente in piano sequenza) dai vicoli di Napoli alle spiagge di Posillipo, mescolando alto e basso, miseria e nobiltà.
Le maschere che punteggiano questo paesaggio scostumato sono quelle di un professore (il sempre più bravo Silvio Orlando) con un figlio fatto di “acqua e sale”, di una diva che insegna recitazione (la sempre più brava Luisa Ranieri), del vescovo Peppe Lanzetta e del John Cheever di Gary Oldman. Parthenope è la mirabile Celeste Dalla Porta, ma “conosceremo bene” il suo personaggio solo quando sarà un’altra diva a prenderne le sembianze.
Come già in Youth, Sorrentino riflette sull’età che avanza paragonata ad una giovinezza perfetta, su ciò che non gli sarà mai dato di comprendere ma anche sulla capacità di vedere come “l’ultima cosa che si impara quando è venuto a mancare tutto il resto”. E Parthenope è intriso in dosi uguali di malinconia e di scontento: ma “a Napoli c’è sempre posto per tutto”, anche per l’incapacità di fare pace col passato e di imparare dai propri errori: vale per le città come per gli esseri umani.