C’è una bambina coi capelli rossi nel giardino dell’Eden, una terra verde da qualche parte nel deserto australiano dove la gente vive in pace e coglie le mele senza peccato. Ma l’irruzione di barbari mascherati, strappa la bambina alla sua mamma e al suo paradiso per andare incontro a un destino di dominazione, non senza lottare. Perché Little D, così la battezza il sanguinario Dementus, non si arrende e si fa posto in un mondo di uomini, cresce in mezzo a loro ma diversa da loro. Lo sguardo all’orizzonte e un chiodo fisso nella testa. Il piano è vendicare la morte della madre e ritornare a casa. Dementus non sente ragione e le mette di nuovo il bastone tra le ‘ruote’. Ceduta per una manciata di benzina e un misero privilegio all’Immortan Joe, sovrano mostruoso della Cittadella, Furiosa farà fruttare l’esilio sviluppando competenza e bellezza, la bellezza dei giusti.
Non osavamo sognarlo ma George Miller lo ha fatto ancora, a settantanove anni firma un’altra epopea folgorante dove Mad Max, eroe motorizzato, non compare più.
Furiosa: A Mad Max Saga racconta l’infanzia e la giovinezza di una bambina nata in un’oasi di pace e di donne, rapita dal cattivo di turno e finita nel clan di un tiranno rock che ha l’età delle sue articolazioni.
Bastano una manciata di secondi per capire che siamo di nuovo a casa, in uno spazio comune, in un luogo caro, nel deserto rosso di George Miller, cavalcato dal 1979 con un incredibile successione di inseguimenti ‘a motore’ e creativamente armati.
Film più lungo della saga, Furiosa salta alla gola e non molla la presa per due ore e ventotto minuti, interrogandoci sul sapore delle lacrime e il significato della vendetta. Temi e motivi sono quelli di sempre (viaggio dell’eroe, traumi infantili, bambini perduti, miti che consolano, speranza dietro la prossima duna), come le influenze (fumetti, western, film muti, film di samurai, di vendetta e di cuori che si fermano e ripartono), riformulate in una forma sovrana e prepotente.
Un racconto formidabile e brutale, rinvenuto nella sabbia e risalente all’età della pietra o forse più avanti, nel nostro imminente futuro. Il film è un’estensione del capitolo precedente e insieme la sua antitesi. È un’espansione smodata, coi suoi spostamenti furibondi, i suoi giorni irreali e le sue notti elettriche, ma è anche l’opposizione alla tesi di Fury Road, che filava dritto come un treno da un punto all’altro e ritorno, tra rettilinei e deragliamenti.
Furiosa è una lunga narrazione mitologica (il ratto di Elena…), radicata nel giardino dell’Eden, stratificata, declinata in capitoli, sproporzionata come i corpi degli uomini davanti alla ‘Little D’ di Anya Taylor-Joy, minuscola ed enorme nei passaggi, nei paesaggi, nelle pause, negli spazi di respiro, nei cunicoli che infila con la libertà. È una saga, come indica il titolo, raccontata dal ‘coro’, un vecchio uomo, proiezione forse di George Miller. E gli echi di quella storia colpiscono in pieno volto, perché il bardo australiano non ha perso un briciolo della sua foga e della sua audacia artistica.
Per i nostri occhi erige città e mondi dove le favole e i miti sono barlumi di speranza contro la furia e il caos. Sovrano di quel regno di sabbia, metallo e sangue – riserva senza fine di petrolio e di storie – piazza tutte le sue pedine: l’Immortan Joe, Lachy Hulme rimpiazza il supervilan di Hugh-Keays Byrne (cattivo superlativo ‘due volte’), i War Boys, i motociclisti barbari del leader megalomane di Chris Hemsworth, irresistibile ‘bastardo’ alla fine del mondo che fa meraviglie sotto al mantello rosso di poliammide, residuo dei suoi anni Thor.
E poi c’è il Praetorian Jack di Tom Burke, che eredita lo sguardo blu e la laconicità di Mel Gibson, e su tutti la Furiosa di Anya Taylor-Joy, attrice eminentemente grafica che prende il volante di Charlize Theron. Meccanica della Cittadella e furiosamente keatoniana (lotta, cade, si rialza) fa avanti e indietro in un décor reale.
Ostinata e muta dentro il mondo ‘aumentato’ di Miller (Petroville, Bullet Farm…), venerabile Omero che trasfigura il blockbuster ed esalta l’essenza del cinema, il suo spettacolo ellittico e la sua vertigine ottica. Spazi aperti e cieli spalancati sono il suo terreno di gioco, dove le carrozzerie si urtano veramente e i personaggi si precisano con una corsa infernale. La poesia resiste alla velocità e il rombare ordinario del cinema d’azione si fa sinfonia di movimento. Miller fa vroom, dirige, ci eleva, accelera e riparte.