In una New York a corto di acqua e dove la guerra è arrivata in forma di terrorismo, con attentati kamikaze, il giornalista Joel e la fotografa Lee hanno deciso che è rimasta una sola storia da raccontare: intervistare il Presidente degli Stati Uniti, da tempo trinceratosi a Washington mentre dilaga una feroce Guerra Civile. Partono così per un viaggio verso la capitale, cui si aggregano l’anziano e claudicante giornalista Sammy e la giovane fotografa Jessie, che vede in Lee un modello da seguire. Contro quel che resta del governo si muovono le truppe congiunte Occidentali di Texas e California, ma la regione che i giornalisti attraverseranno nel loro viaggio non è fatta di battaglie campali tra schieramenti ed è invece preda di un caos di microconflitti e atrocità.
Il film più provocatorio dell’anno, e il più costoso mai prodotto da A24, non offre spiegazioni bensì scuote dispiegando un violentissimo conflitto, ambientato in America ma rivolto più in generale al degrado della Democrazia.
Il regista Alex Garland ha infatti dichiarato che se negli Stati Uniti certe cose sono esacerbate, per esempio dall’onnipresenza delle armi da fuoco, ci sono guerre civili che sono state combattute a colpi di machete e hanno comunque fatto decine di migliaia di morti. Garland dice che avrebbe potuto ambientare il film pure nella sua Inghilterra o in qualsiasi altra democrazia, perché alla vera origine di questa Civil War c’è la demonizzazione dell’avversario politico, l’assunzione di entrambe le parti di una posizione di presunta superiorità etica che squalifica la parte avversa e impedisce ogni confronto, allargando sempre più le divisioni.
Anche per questo i suoi protagonisti hanno il solo punto di vista lucido e costruttivo: la neutralità. Imparziali fino all’estremo, si ribellano allo stato delle cose documentandolo senza sconti, anche negli orrori più truci. Drogati di adrenalina o anestetizzati alle emozioni dalle brutalità cui hanno assistito, attraversano un’America insidiosa e a tratti surreale, dove borghi tranquilli sono protetti da cecchini sui tetti e dove militari scavano fosse comuni.
Garland inizia il film in medias res, senza cartelli esplicativi né dialoghi riassuntivi per il beneficio degli spettatori: ai protagonisti è chiaro quali sono le parti in campo e tanto gli basta. Questo radicale rifiuto di didascalismi si traduce in una straordinaria densità: gli eventi si susseguono rapidi, numerosi e sempre più violenti, fino a un assalto finale a Washington tanto spaventoso quanto teso ed efficace dal punto di vista spettacolare. Il crescendo di morte e distruzione appare ineluttabile e troverà una secca e amarissima conclusione, tutt’altro che rassicurante.
L’assenza di spiegazioni impedisce del resto di disinnescare questo incubo con la logica e anche quel poco che ci viene detto basta del resto a scombinare i nostri preconcetti. La California liberal e il Texas conservatore sono qui alleati, contro un Presidente “fascista” che ha mantenuto il potere per un terzo mandato, ha sciolto l’FBI e ha approvato bombardamenti con droni sul suolo americano. L’odio verso di lui unisce così Stati anche tradizionalmente avversi, in un caotico precipitare degli eventi che evita di essere una banale e strumentalizzabile rappresentazione delle divisioni dell’America oggi.
Spesso è persino impossibile dire chi stia da una parte e chi dall’altra e i protagonisti del resto non lo chiedono quasi mai e quando lo fanno non ricevono risposte, oppure vengono coperte dalla musica, come quando Joel chiacchiera e ride con i sopravvissuti a una sparatoria, mentre Jessie fotografa un’esecuzione. Il loro obiettivo è fare l’ultimo scoop o lo scatto definitivo, quello che rimarrà nella memoria collettiva, il loro operare è un misto di necessario cinismo e folle coraggio, di cui Garland non nasconde i paradossi.
Anzi gli inserti fotografici sono la principale marca stilistica del film, dove il flusso frenetico dell’azione è spesso spezzato da immagini statiche, a volte in bianco e nero, di uno o due secondi di durata e senza audio che non sia il suono di uno scatto di macchina fotografica. I suoi giornalisti, con la loro facciata di neutralità – che si infrange però a volte in grida mute e disperate – sono l’unica risposta possibile alla fine della democrazia, sono i testimoni che ci ammoniscono riguardo il baratro a cui ci avviciniamo. È attraverso di loro che Garland firma un’opera dal taglio documentaristico, specchio di un mondo distorto ma in cui è fin troppo facile riconoscere il presente.