Siamo agli inizi del Novecento, la Gran Bretagna sente il peso del passato e gli Stati Uniti sembrano liberi dalla Storia. La famiglia Otis, bostoniana di ferro, si sposta così da una parte all’altra dell’Atlantico, prendendo possesso della storica residenza di Canterville Chase. Gli americani, tutto razionalismo e scienza moderna, si scontrano subito con le credenze secolari e gotiche degli inglesi, in particolare con l’idea che la vecchia magione sia infestata dal fantasma di Sir Simon de Canterville, morto trecento anni prima in circostanza misteriose dopo aver ucciso la moglie Lady Eleanor. Ed è vero, lo spirito di Sir Simon tormenta gli abitanti della casa, ma Virginia, la primogenita degli Otis, ben presto ci fa amicizia, e tra una liaison con il giovane Henry, Duca di Cheshire, e il peso di un’antica profezia, ben presto l’avventura comincia.
Elettricità, brughiera inglese, nuovo secolo, antiche tradizioni: Oscar Wilde era sempre avanti al suo tempo.
Prima de “Il ritratto di Dorian Gray”, riscrittura mitopoietica di tanti altri miti; gioiosamente prima delle farse-verità “Il ventaglio di Lady Windermere”, “Un marito ideale” e “L’importanza di chiamarsi Ernesto”; drammaticamente prima delle funeree e finali “La ballata del carcere di Reading” e “De Profundis” – prima di tutto ciò Oscar Wilde scrisse “Il fantasma di Canterville”, che forse a noi continentali non dirà nulla ma che sulle sponde albioniche, e a quelle yankee, risuona ancora oggi come uno dei racconti di fantasmi più amati, rappresentati e coccolati.
Che ironia, eh? Wilde l’esteta, Wilde il decadente, perfino Wilde il sodomita e socialista amato in modo trasversale per un’opera giovanile – la prima in prosa ad essere pubblicata -, comica e per i più piccoli. Eppure il nostro era cresciuto in una casa dove il padre William e la madre Jane ricevevano spesso Sheridan Le Fanu, e lo stesso Wilde sentiva più di altri il volgere dei tempi tanto da inchiodarne le ipocrisie più profonde negli articoli e nei motti di quegli anni. Così “Il fantasma di Canterville” ha un suo piccolo status, tanto da traslarsi nel corso dei decenni in uno spettacolo teatrale, un’opera, un musical, un radiodramma e la solita infilata di trasposizioni cinematografiche – tra cui un Jules Dassin nel ’44 con protagonista Charles Laughton e il duetto del ’96 tra Patrick Stewart e Neve Campbell.
Tutta materia già pronta, stratificata, rivista per un film d’animazione, che arriva centotrentasette anni dopo con questo Il fantasma di Canterville, adattamento a firma Kim Burdon e Robert Chandler, rispettoso dell’originale e allo stesso tempo capace di mediare con le necessarie istanze contemporanee. L’impalcatura generale del lavoro di Wilde, infatti, è tenuta sempre e comunque in piedi, giusto puntellata da una figura femminile – la quindicenne Virginia – che per motivi spettacolari si imbarca in una serie più prove più muscolose e tangibili rispetto al sulfureo plot dell’originale.