Antonio Riva è un operaio specializzato in prepensionamento, che va ancora in fabbrica ad insegnare (gratis) il mestiere ai più giovani. Accudisce la madre affetta da demenza senile, è in buoni rapporti con la ex moglie e ha un’amante sposata che si vuole divertire. Quando la figlia Emilia annuncia il suo matrimonio Antonio è felice di provvedere ai costi della cerimonia, perché quello di portare la sua bambina all’altare è sempre stato il suo sogno, e il gioco preferito di entrambi. Così si reca in banca per prelevare dal conto su cui ha messo tutto ciò che ha, ma il direttore gli consiglia invece di fare un prestito con una finanziaria e non disfare le sue azioni, che stanno “viaggiando”. Ma Antonio non possiede azioni, o meglio, non si è reso conto di aver tramutato le sue obbligazioni sicure in azioni a rischio, passando da risparmiatore ad azionista su consiglio di quella banca dove gli impiegati erano di famiglia, e che aveva sostenuto lo sviluppo dell’intero paesino sul lago di Lecco dove è nato e cresciuto. Quella banca, poi, mica può fallire, perché se fallisse “andrebbero a gambe all’aria tutti quanti”.
Con Cento domeniche, di cui è protagonista, sceneggiatore (con Piero Guerrera) e regista, Antonio Albanese prosegue nel percorso di cinema civile che caratterizza la sua carriera di artista.
Il suo intento qui è raccontare un’Italia perbene in via di sparizione, preda delle spietate logiche del mercato e della spregiudicatezza degli istituti bancari, che fanno ruotare il personale nelle filiali locali affinché nessuno possa costruire un rapporto di fiducia con il cliente.
Ed è proprio di fiducia che Cento domeniche parla: quella con cui Antonio mette in mano il suo futuro a persone che dovrebbero tutelare i suoi interessi, e non solo i propri. Perché le brave persone come lui appartengono ad un mondo antico in cui la solidarietà e l’aiuto reciproco erano moneta corrente, e la parola data era oro.
Nella prima parte del film quel mondo sembra ancora vivo: compagni della bocciofila, colleghi affettuosi, persino un datore di lavoro bonario che gli lascia in gestione un orto e un pollaio (dopo però averlo prepensionato per suo comodo). Ma a poco a poco quel mondo viene sostituito da personaggi che sembrano gli alieni di L’invasione degli ultracorpi, rotelle dell’ingranaggio più o meno consapevoli. Un ingranaggio che stritola gli indifesi – i pensionati, i giovani, le donne – lasciando “viaggiare” solo i pochi potenti.
Albanese come sempre è magistrale nell’incarnare l’uomo comune, quello che ci rimette perché è in buona fede, che mostra empatia e attenzione (spesso non reciprocata) verso gli altri. Nella prima parte i dialoghi sono eccezionalmente precisi e credibili, mentre diventano più forzati nella seconda parte, forse perché lì Albanese deve raccontare persone molto lontane da lui, e moralmente incomprensibili. Ma i suoi incontri con la madre, interpretata da una monumentale Giulia Lazzarini, sono pieni di verità e infine di strazio.
Ed è straziante l’intera parabola di Antonio, prevedibile per tanti ma non per lui, che non reagisce con la dovuta tempestività semplicemente perché non può credere a quel sistema di (dis)valori così diverso dal proprio sentire, da ciò su cui ha basato la sua intera esistenza. E poi si ritrova a fare i conti con il senso di colpa e la vergogna per essere stato così ingenuo, così sprovveduto. Per non avere mai letto le clausole in piccolo, fidandosi delle strette di mano e di chi lo chiamava per nome.
Dal punto di vista della regia Cento domeniche (quelle in cui Antonio ha lavorato per tutta la vita) è convenzionale, quasi scolastico nelle transizioni fra un scena e l’altra, ma ha anche intuizioni bellissime e in qualche modo visionarie: la silhouette della madre di Antonio dietro la porta a vetri, la bambina che gioca a nascondino e gli fa segno di tacere. Al prossimo film speriamo che dia più ascolto a quelle intuizioni e si preoccupi di meno che tutto torni, soprattutto nel raccontare una storia in cui, per il protagonista, non torna proprio niente