Johnny si sposta di città in città per chiedere ai giovani americani come immaginano il loro futuro. Armato dell’attrezzatura professionale del fonico, sta lavorando a questo progetto itinerante quando, a un anno dalla morte della madre, sente il bisogno di chiamare sua sorella Viv. Viene così a sapere che suo marito sta male e che lei ha bisogno di raggiungerlo. Johnny si offre allora di raggiungere Los Angeles per stare con Jesse, il nipotino di nove anni, finché ce ne sarà bisogno.
Il suo è un viaggio nella genitorialità, la scoperta di un universo fatto di quotidianità, fatica, ma anche di voragini di sentimento, di domande inattese, di una relazione che non dà tregua e obbliga ad un continuo esercizio di comprensione di sé e dell’altro, tra rispetto e favoreggiamento dell’autonomia, da un lato, e necessità di non trascurare e di assicurare protezione, dall’altro. Mike Mills immagina questo viaggio – che è anche geografico, da L.A. a New York a New Orleans – in bianco e nero: perché è alle madri, secondo una citazione riportata nel film, che tocca rendere il mondo sicuro e a colori; perché è il bianco a nero di “Alice nelle città” di Wenders, film modello dell’erranza di adulto e bambino; e perché, il pianeta Terra (e questo piccolo film con lui) è così ricco di suoni, emozioni, stimoli, che il colore sarebbe di troppo.
A volte occorre un po’ di silenzio, dice Joaquin Phoenix, a ragione. Eppure il film di Mike Mills non tace mai, il suo giovanissimo protagonista è petulante, eppure nessuno lo zittisce.
Lo si invita invece senza sosta a parlare di sé, a esternare le proprie emozioni, a dirsi offeso, umiliato, triste, arrabbiato, per la più piccola incomprensione, il minimo incidente relazionale. E intanto l’adulto si tormenta, perché ha alzato la voce, perché non ha avuto pazienza, perché è stato indelicato.
Hmm. Mentre Mills s’inabissa nella scoperta (un po’ tardiva) che i bambini sono persone, e mentre Joaquin Phoenix tiene magicamente il film a galla e a tratti anche molto al di sopra, spargendo autenticità sull’artificio e sensibilità su un terreno troppo cerebrale, allo spettatore viene però da domandarsi se troppo zelo e pochi freni non siano una strategia più diseducativa che altro, benché sicuramente al passo coi tempi.
Anziché scongiurare il ripetersi in Jesse di una sofferenza psichica ereditaria, questa stimolazione del sé sembra insomma guidarlo sulla rotta della nevrosi precoce, e noi con lui, come topolini al seguito del pifferaio magico. Per fortuna che ci sono le interviste (reali) agli adolescenti, che ci raccontano un mondo non molto più felice ma almeno più vario e diversificato.