Compagne di ‘gravidanza’ in una clinica di Madrid, Janis e Ana diventano madri lo stesso giorno. Janis è una fotografa affermata, Ana un’adolescente anonima. La nascita di due bambine crea un legame forte che evolve in maniera simmetrica. Janis ha deciso di crescere da sola la figlia che l’amante, un antropologo forense, non ‘riconosce’ come sua, Ana, ‘abbandonata’ dai genitori sempre altrove, fa altrettanto. Ma il destino è dietro l’angolo e finirà per incontrarle di nuovo dentro una Spagna che fa i conti col passato e il DNA nazionale.
Con La voce umana, monologo di una donna respinta trasformato in una performance pop ed esplosiva, Pedro Almodóvar sperimentava il vuoto e svuotava la sua cassetta degli attrezzi. Un gesto liberatorio che gli permette oggi di ‘costruire’ altre cose, conservando tuttavia il suo universo, i suoi colori accesi, la pop art, gli affetti speciali.
Rotta l’illusione del décor cinematografico, filmando l’hangar in cui è allestito il finto appartamento di una donna alienata dalla sua passione, un corto dopo realizza Madres Paralelas e passa al mélo critico con l’implacabile finezza politica di Douglas Sirk.
Non è la legge del desiderio a muoverlo questa volta ma la legge della “Memoria histórica”, approvata alla fine del 2007 dal Governo Zapatero per restituire a un popolo i suoi morti. Un popolo che chiede di riconoscerli e di piangerli. Un’esigenza sollecitata nel film dal personaggio di Penélope Cruz, spinta dall’urgenza di restituire una degna sepoltura al suo bisnonno. Janis lo ha promesso a sua nonna e alla sua bambina appena nata, perché la Memoria non ha a che fare col passato ma col presente e il futuro.
Almodóvar si muove lungo la sutura di una transizione (politica) ambigua e di un Paese mai davvero ricomposto. Senza rinunciare all’empatia prodigata ai suoi personaggi, a interessargli visibilmente è la nativa Spagna, a cui torna come da un esilio e che filma non più come territorio mentale, un sogno che impasta coi colori materia proustiana, ma come terra da scavare (letteralmente), riesumando i fantasmi della Guerra Civile.
Ritratto genetico di una nazione, Madres Paralelas è quello che Hollywood definisce, e mai definizione fu più luminosa, un movie motion pictures, immagini (emozionanti) in movimento. Una formula, magica e chimica, che Almodóvar applica per realizzare i suoi film più belli. Nel suo cinema tutto è movimento, a cominciare dalle emozioni, un’azione ‘di dentro’. In questo senso, un melodramma è un film d’azione, un’avventura intima da cui usciremo in lacrime, stravolti dall’instabilità romanzesca, le montagne russe sentimentali, le peripezie (in)verosimili che mai come in questo film elevano la trama da foto-romanzo a tragedia (iberica). Ancora una volta è una questione di maternità. Perché la guerra sarà pure è un’affaire da uomini ma per il regista un uomo è prima di tutto un figlio.
Se in Dolor y gloria Penélope Cruz era la dea protettrice e radiosa dei ricordi di infanzia, generatrice di fiction che diventavano storie che confortano, in Madres Paralelas è genitrice di memoria storica. Attrice familiare come Banderas, per lei immagina un’altra madre, disegna un fato, pianifica un destino, a cui la sua protagonista reagisce perché per Almodovar come per Sirk, gli individui non smettono mai di riscrivere la loro storia, di evolversi, di fare ammenda, di diventare altri, qualche volta migliori, qualche altra peggiori.
Nell’opera di Almodóvar l’identità non è mai fissa, è forse il regista più transgender del nostro tempo, converte cuori, corpi e menti tracciando fluidamente il percorso che una persona deve fare per superare i pregiudizi del suo ambiente, le proprie resistenze e ogni altra cosa sia disposta a sacrificare per non rimpiangere i suoi sogni o viceversa per rimpiangerli. Madre due volte, della ‘sua’ bambina e di un’adolescente che non ha il ‘peso’ del trauma (150.000 cadaveri senza un nome), Janis è un’eroina fiammeggiante, un impasto di colori che divora progressivamente l’oscurità, educa le nuove generazioni, fa il suo lutto e concepisce forse l’uomo di domani. Meglio, la donna, Milena Smith nuova musa almodovariana affatto almodovariana. Corpo estraneo al suo cinema, lo era in fondo anche l’alterità incandescente di Tilda Swinton (La voce umana), la giovane attrice è un volto immediatamente sublime e sublimato, che apporta una differenza e una prospettiva sul tempo presente in relazione al passato.
Almodóvar ripercorre le ‘impronte genetiche’ dei nonni della nazione, un’azione memoriale che ripara e conferma la narrazione melodrammatica non come ‘storia d’amore’ scollata dal suo ambiente ma come qualcosa a cui pensare mentre ci meravigliamo a ogni sequenza. Come per Sirk e Fassbinder, anche per Almodóvar il melodramma è un processo di trasmissione di senso che può parlare criticamente di un’epoca. Se le ‘corde’ del genere sono sempre catastrofiche o provvidenziali, il destino melodrammatico è sempre politico o sociale. Madres Paralelas è tutto quello che il melodramma permette, accordando due ‘storie’ parallele.