The Silent Man

Come un agente FBI divenne la fonte anonima per la coppia di giornalisti che fece esplodere il caso Watergate.
The Silent Man

Washington, 1972. Mark Felt è il vicedirettore dell’FBI, presso cui presta servizio da trent’anni, quando il suo capo, il temibile J. Edgard Hoover, muore lasciando vacante la poltrona di direttore. A modo suo, Hoover era un architrave del sistema e la sua assenza scardina un sistema di potere, un’architettura istituzionale ben codificata. Tantopiù che Felt, delfino ed erede designato di Hoover, viene invece bypassato in favore di Pat Gray, legato a doppio filo con la Casa Bianca. Mancano circa duecento giorni alle elezioni presidenziali, il Repubblicano Richard Nixon si aspetta una riconferma e la sua campagna elettorale non risparmia i colpi bassi: fra questi, una pesante intrusione nella sede del Partito Democratico. È l’inizio dello scandalo Watergate e le indagini dell’FBI vengono chiaramente ostacolate dalla presidenza.

Felt, che ha sempre rivendicato l’autonomia della sua agenzia rispetto alle ingerenze della politica, non ci sta, e comincia una battaglia sotterranea, che non esclude le soffiate strategiche alla stampa.

The Silent Man racconta la vicenda dell’informatore del Washington Post definito come Gola Profonda, strumentale nel trascinare Nixon verso le dimissioni. Da uomo abituato a mantenere segreti, Felt non rivelò la sua identità fino al 2005 in un’intervista al Vanity Fair americano, e nonostante molti all’interno dell’FBI (e della Casa Bianca) conoscessero la sua storia, non fu mai rimosso dall’incarico perché era “l’uomo che sapeva troppo”, e le sue eventuali rivelazioni avrebbero fatto crollare il gigantesco castello di informazioni tenute nascoste “per il bene pubblico”.

La sua parabola, raccontata nell’autobiografia che Felt consegnò alle stampe nel 2006, è la base di The Silent Man, scritto e diretto da Peter Landesman, giornalista investigativo passato al cinema come sceneggiatore e poi regista: il che spiega il fatto che The Silent Manmanchi in azione e abbondi in dialoghi. Ma anche la regia, che potrebbe sembrare televisiva (nell’accezione contemporanea di televisione di qualità), rivela aspetti interessanti ed è fortemente debitrice di un mentore: quel Ridley Scott che produce il film, e il cui punto di vista “filosofico” pervade l’intera narrazione visiva.

Liam Neeson presta la sua solennità a un personaggio che si vive come un vettore, una freccia scoccata verso una direzione da mantenere con inflessibile determinazione. Il suo Felt lascia il lavoro sporco ad altri meno idealisti e integerrimi di lui – primo fra tutti il “macellaio” Bill Sullivan – ma non disdegna le pressioni indebite e le trasgressioni in tema di diritti umani. Il contraltare di Felt, più che Sullivan, è Pat Gray, che in un’altra circostanza sarebbe stato interpretato (con il beneplacito di Ridley Scott) da Kevin Spacey, e invece qui ha il volto del clone di Spacey Marton Csokas. Il resto del cast è formato da volti noti in ruoli minori: Diane Lane nei panni della moglie di Felt, Tony Goldwyn, Josh Lucas, Tom Sizemore, Bruce Greenwood, e persino Eddie Marsan in un microscopico cammeo.
Il commento musicale di Daniel Pemberton sottolinea magistralmente i passaggi più sulfurei della vicenda, e la cinepresa di Landesman indugia (a volte troppo a lungo) sul volto imperscrutabile di Felt come sugli ambienti chiusi che Gola Profonda attraversa in silenzio, mentre la fotografia di Adam Kimmel si mantiene buia e opaca come la storia di segreti e bugie che racconta. Una vicenda che nel presente assume rilevanza perché pone la domanda su quanto sia lecito, in nome della difesa dello Stato, tenere il pubblico all’oscuro senza “chiedere il permesso di nessuno”, esigere mani libere e non rispondere delle proprie azioni all’opinione pubblica e ai mass media. E ci ricorda anche che FBI e CIA restano “le costanti”, al di là di chi si avvicenda nella Stanza Ovale.

The Silent Man
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