Il finanziere Numa Tempesta sta per avviare un grande progetto immobiliare in Kazakistan. Ma proprio al momento di chiudere le trattative con gli investitori internazionali i suoi avvocati lo informano che dovrà scontare una condanna per frode fiscale: non in carcere, che gli avvocati sono riusciti ad evitargli, ma prestando servizi sociali presso un centro di accoglienza. Passaporto e cellulare gli vengono ritirati da Angela, che gestisce il centro, e Numa è adibito a vari compiti di assistenza – compreso quello di tenere puliti i bagni comuni.
La parabola di Tempesta è dichiaratamente ispirata a quella di Silvio Berlusconi, ma lo sviluppo del personaggio ha più a vedere con la commedia all’italiana che con l’attualità politica (anche se nella realtà spesso le due si sovrappongono).
Nelle intenzioni di Daniele Luchetti pare esserci il ritratto di un Paese che sta cambiando pelle ma che rimane ben ancorato ai suoi peggiori difetti: il qualunquismo, la rincorsa della ricchezza facile, e quella corruttibilità secondo cui tutti, nessuno escluso, hanno un prezzo.
La commedia all’italiana classica però, pur raccontando un’amoralità diffusa, fustigava i suoi personaggi. Numa invece finisce per apparire migliore degli ospiti del centro di accoglienza, fra cui Bruno, un padre che ha perso tutto tranne il figlio, e Angela, il personaggio più incoerente della storia: è impossibile dettagliare la repentinità delle sue contraddizioni senza svelare le svolte della trama.
Il personaggio meglio riuscito è quello di Nicola, il figlio di Bruno, grazie anche alla bellissima interpretazione di Francesco Gheghi, cui per fortuna manca la piacioneria televisiva che caratterizza molti dei giovanissimi attori italiani. Nicola incarna credibilmente l’amara consapevolezza di una situazione pesantemente compromessa, e la capacità di fare ciò che si deve in un mondo in cui ognuno fa come gli pare. Il trio di studentesse di psicologia appartiene invece ad un altro film, potenzialmente molto divertente e politically incorrect.
La regia di Luchetti è come al solito professionale e in alcuni momenti illuminata, la recitazione di Giallini è adatta al ruolo del finanziere infantile e anaffettivo. Ma la scrittura (di Luchetti con Giulia Calenda e Sandro Petraglia) resta il punto debole di Io sono Tempesta, perché invece di raccontare un cambiamento (o l’impossibilità di un cambiamento) nei suoi personaggi, delinea una schizofrenia comportamentale del tutto priva di gradualità. E da più o meno metà della storia la narrazione, che nella prima parte costruiva premesse interessanti, deraglia frastagliandosi in una divergenza di binari tronchi. Io sono Tempesta descrive un’Italia superata dagli eventi, senza registrare l’entrata in scena delle nuove (non)ideologie, rimanendo un passo indietro rispetto all’attualità incalzante. E non sembra tanto riflettere un Paese allo sbando, quanto un’incertezza drammaturgica nella posizione da assumere al riguardo.