Billie Jean King, tennista californiana e campionessa in carica, combatte per ottenere, a parità di mansioni, la stessa retribuzione dei colleghi. Ma al debutto degli anni Settanta le cose non sono così semplici. Sposata con Larry King ma innamorata di Marilyn Barnett, Billie è impegnata a risolversi sul fronte privato e su quello pubblico, dove accetta e affronta la sfida lanciata da Bobby Riggs, ex campione a riposo. Machista e accanito scommettitore, Riggs vuole dimostrare sul campo la supposta superiorità maschile. Il 20 settembre 1973 all’Astrodomo di Houston in Texas va in scena “la battaglia dei sessi”, la partita di tennis più famosa della storia. La posta in gioco: cento mila dollari e un set guadagnato all’emancipazione femminile.
Nuove generazioni di donne godono di importanti diritti. Diritti acquisiti, sociali e umani, che gli permettono di realizzarsi secondo scelte personali. Ma non è stato sempre così e non è ancora pienamente così. La battaglia per la parità di trattamento dei sessi è tutt’altro che conclusa. Per questa ragione è essenziale ripassare le tappe di un percorso centenario e ostinato.
La battaglia dei sessi, match d’antologia tra Billie Jean King e Bobby Riggs, è una di quelle tappe. Strappando il titolo a una sfida epica che catturò l’attenzione mondiale e cambiò per sempre la storia del tennis, la nuova commedia vintage di Jonathan Dayton e Valerie Faris rigioca la partita, una battaglia sportiva e politica insieme contro il pregiudizio sulla qualità del gioco offerto dalle donne. E l’interesse del film risiede nella lotta condotta da Billie Jean King in campo e fuori per ridurre lo scarto (economico) tra uomini e donne nell’universo sportivo. La battaglie dei sessi evoca una società, nemmeno troppo lontana, dove il sessismo era rivoltante e sistematico, sovente sostenuto da uomini che incarnavano l’autorità e la interpretavano con arroganza.
Uomini come Jack Kramer (Bill Pullman), co-fondatore dell’Association of Tennis Professionals, certamente più pericoloso e infido del gigionesco Bobby Riggs. Se il tono del film è ludico, la materia è gravosa. Perché La battaglia dei sessi svolge la ricerca identitaria di una donna che scopre la propria omosessualità in un’epoca che non faceva sconti e coltivava col pregiudizio l’omofobia. Se il tono è appannaggio di Steve Carell, che stabilisce il codice del gioco e lo eccede a colpi di dichiarazioni incendiarie e motteggi, la materia è proprietà di Emma Stone, che ribatte il sarcasmo dell’avversario con implacabile resistenza.
Realizzatori del feel good movie Little Miss Sunshine, Jonathan Dayton e Valerie Faris vorrebbero, ma non possono, dirigere la commedia come un film di guerra. Giocare a maschio e femmina richiede una maturità drammatica maggiore di quella messa in campo. Trombone veterano dalla bocca larga, il personaggio di Steve Carell attinge senza troppo pudore alla biografia di Bobby Riggs risultando irresistibile nella tracotanza ma poco sottile nel restituire l’angoscia del fallimento che resta compresso nel bordocampo. La sopraffazione verbale e l’ego ipertrofico in guerra saturano la commedia e costringono la contendente negli spazi chiusi dell’azione. Camere d’albergo, spogliatoi, camerini, bagni, sono il campo autorizzato oltre il quale non è possibile spingere l’eroina di Emma Stone, ‘appiccicata’ come la parrucca bruna e gli occhiali seventy.
Bagliore di leggerezza sofisticata in La La Land, l’attrice non trova mai dietro la rete il rovescio stilisticamente corretto. È un corpo che procede automatico nella sua rigidezza, troppo artificiale per essere efficace e struggente. Ma a dispetto di tutto, questo gioco a due che assomiglia a una partita a quattro (i registi sono marito e moglie), ci rammenta i trionfi, formidabili e fragili, portati a casa e gli scacchi subiti. King batte Riggs con un rotondo 6-4, 6-3, 6-3 ma l’incontro non è ancora vinto.