VINCITORE DI 3 PREMI OSCAR: MIGLIOR FILM – MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA – MIGLIOR SCENEGGIATURA NON ORIGINALE
Miami. Little ha dieci anni ed è il bersaglio dei bulli della scuola. Sua madre si droga, e lui trova rifugio in casa di Juan e Teresa, dove può parlare poco ma sa che può trovare le risposte alle domande che più gli premono. Nero fra soli neri, dei suoi coetanei non condivide l’atteggiamento aggressivo, l’arroganza che indossano fin da piccoli. Chiron -è questo il suo vero nome- non è un duro, ma nemmeno un debole. È gay e, anche se non lo dice, non sa essere chi non è, non sa e non vuole adeguarsi, così si ribella e finisce in prigione. Quando esce, Black è diverso, cambiato, apparentemente un altro, ma sempre lui.
Diviso in tre capitoli, che portano per titoli i differenti nomi del protagonista, Moonlight è un ritratto allo stesso tempo sociologico e introspettivo della vita di un ragazzino gay nel cuore della comunità nera machista e criminale della Florida.
La prima parte racconta lo sguardo degli altri: sono i compagni a chiamarlo Little, stigmatizzandone la sua scarsa importanza e il suo ruolo di vittima sacrificale, ma il ragazzino diventa anche il “piccolo” di Juan, il figlio adottivo a cui passare il testimone. La seconda parte è quella centrale, per collocazione e concetto: Chiron scopre se stesso, il male che fa e la forza che richiede. L’ultima parte è la sintesi delle altre e il capitolo cinematograficamente più interessante. Black è il soprannome che gli ha detto Kevin, l’unico ragazzo che lo abbia mai sfiorato e questo capitolo è per loro, per misurare chi è cambiato di più, chi si è annullato di più, plasmandosi sul modello del padrino o su una richiesta sociale insoddisfabile.
Il film di Barry Jenkins sembra fare di tutto per scrollarsi di dosso la provenienza teatrale (il copione è infatti l’adattamento di una pièce breve), ricorrendo a inquadrature sfuocate e a immersioni tese nel triangolo stradale dello spaccio o nel cerchio di fuoco nel quale il bullo carnefice va in cerca della nemesi da punire, ma paradossalmente è nella tensione statica, al tavolo della cucina o a quello del bar, che il film dà il suo meglio. Oltre che nel primo piano, strumento questo sì precipuamente filmico, luogo della riflessione tra soggetto in sala e soggetto sullo schermo, e dunque della domanda identitaria.
L’interesse di Moonlight è perciò più negli sporadici momenti artisticamente riusciti che nella battaglia contro gli stereotipi (il buon patrigno che tutto buono non è, l’ostentazione di un modo d’essere, supposto virile, che è in realtà una maschera e dunque un nascondiglio), e prova ne è il fatto che, là dove è delegata alle parole e alle derive patetiche, la battaglia non risuona a sufficienza e il film nemmeno.